Trenta pagine

A volte un malessere passeggero può essere piacevole. Soprattutto quando non si è abituati a cedere alle debolezze del fisico e, quindi, quel cadere vittime delle proprie fragilità lascia impreparati, sorpresi e aperti alle più stravaganti riflessioni.

Naturalmente mi viene in mente Proust, avvolto nel suo bozzolo asmatico senza il quale, forse, non avrebbe mai partorito il suo immane monumento letterario. Paradossale che uno degli editori cui mandò il suo dattiloscritto – l’editore Ollendorff – gli rispose: “Non riesco a capire che qualcuno possa impiegare trenta pagine a descrivere come si volta e rivolta nel letto, prima di prender sonno”.

Ebbene, io sì. Magari ogni malato fosse dotato almeno di un frammento di quel genio che sa cogliere nelle pieghe del lenzuolo l’immensità di un prato, in una goccia di sudore il fragore di una cascata, nella fioca luce di una candela lo scintillio del sole. Altro che trenta pagine! Così imbevuti dentro i flebili confini di se stessi, nel roboante silenzio di una camera ovattata, ecco fiorire tutto ciò che vorremmo fare o che abbiamo fatto.

Volti, odori, parole … I desideri rincorrono i ricordi, mescolandosi in un fantasmagorico arazzo che fa di noi stessi un essere onnipotente, senza tempo, senza età. Perché la mente può tutto, soprattutto quando il corpo è intorpidito e il suo limite le dà il permesso di galoppare senza freni.

Saperlo descrivere è un altro fatto, è per pochi saper ricamare fiori sui propri dolori. Lasciamolo ai grandi talenti, come Proust, ma ricordiamoci che anche un malessere può essere piacevole. Un’occasione per “sentire” noi stessi, riflettere sui nostri errori, riprometterci di essere migliori e, soprattutto, essere grati a chi ci vuole bene.