Metti una mattina malinconicamente uggiosa. Metti una passeggiata nel parco senza incontrare quasi alcuna anima viva. E metti un silenzio avvolgente, rassicurante, che coccola una piacevole solitudine. È un manto plumbeo e soffice, trapuntato dal leggero tic toc dei miei passi sulla passerella di legno che si srotola alla Foce, ritmato dalle campane in lontananza, allegramente vivaci, persino stonate rispetto al desolante grigiore che mi circonda.
Eppure … eppure qualcosa di poetico scintilla nell’umbratile immobilità e ravviva l’insieme. È un coro acuto accompagnato da una convulsa danza alata. Sono i gabbiani che, insieme a papere e cigni, banchettano poco oltre un grande platano proteso verso la piccola spiaggia lacustre.
Una nuvola di uccelli bianchissimi s’agita prepotentemente nell’aria per planare poi in acqua, alla conquista del prezioso boccone. La lotta è serrata, soprattutto tra i gabbiani, notoriamente famelici e combattivi, più sornioni i cigni, apparentemente consapevoli della propria regale presenza, e più simpatiche le papere, miti e gentili.
A creare tutto quel trambusto è lei, come sempre, la signora degli uccelli, come la chiamo io. Non la conosco ma la vedo spesso, da anni ormai. Sempre nello stesso punto del parco, quello prediletto dai volatili lacustri. Lì, armata di sacchetti di semi, la signora degli uccelli ha appuntamento fisso con i suoi affezionati amici, che solo vedendola arrivare da lontano cominciano a cantare in festa raccogliendosi tutti attorno a lei.
Ha un che di aggressivo questo frenetico svolazzare addosso alla donna, almeno a me pare così ogni volta che lo osservo. Ma questa mattina è diverso. La spio da lontano, siamo solo io e lei, nessun altro attorno. Lei non mi può vedere, così continua a nutrire gli animali con disinvolta naturalezza. Seguo la sua mano che pesca in un sacchetto di carta e poi, levando il braccio in alto, lancia nell’aria i semi. Mi sembra di assistere a un rito propiziatorio, fatto di fede, speranza e reciproca gratitudine.
Mi ritraggo per uscire da una scena in cui sono solo un’estranea. Ma prima di tornare sui miei passi ho la certezza di cogliere un segreto dialogo tra lei e loro, una complicità selvatica e allo stesso tempo delicatissima. Mi ricredo sulle silenti critiche che in passato muovevo a questa signora, convinta che gli uccelli non dovessero essere nutriti dagli umani per non violarne la natura. Oggi, invece, penso che a loro mancherebbe questa mano gentile, dispensatrice non solo di cibo ma anche di un momento felice in cui poter cantare nell’aria e danzare a fior d’acqua.
È un momento poetico che scintilla nell’umbratile immobilità e ravviva l’insieme. Perciò, grazie anche da parte mia, signora degli uccelli.
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