San Bernardino, alla corte del re Pizzo Uccello

Ogni Passo alpino ha un suo fascino, una sua personalità. La sensazione, quando superato l’ultimo tornante intravvedo all’orizzonte l’immancabile bandiera rossocrociata, è sempre quella di atterrare sulla luna. Ma una luna ogni volta diversa. 

Percorrere la strada che conduce al Passo del San Bernardino, per esempio, è come un’ascesa verso uno stato d’animo di pace interiore. A differenza di altri Passi più prepotenti, il paesaggio del Moesano, con le sue ridenti valli – la Mesolcina e la Calanca – accompagna verso il villaggio del San Bernardino con rara grazia.   

Ancor prima, dopo aver lasciato alle spalle la Piana di Magadino nel Bellinzonese, la vallata si restringe e invita a farsi respirare, lentamente. I boschi sembrano farsi largo ai lati dei prati, arrampicandosi ordinatamente sulle pareti rocciose che già si fanno verticali, costringendo la strada ad arrancare, ansa dopo ansa. Ecco che si entra nel cuore vivo delle Alpi con beatitudine. Le conifere sembrano dipinte, tanto sono perfette, i pascoli sono soffici e mettono voglia di fermarsi per distendersi al sole, persino le sfumature di verde sembrano uscite dalla meticolosa pazienza di un artista in piena pace interiore. 

Anche il piccolo villaggio è naif. Raccolto attorno a un cuore di casette in legno, San Bernardino è il perfetto punto di congiunzione tra natura e urbanità, tanto è lieve il contrasto tra le due dimensioni. Oltretutto, la complicità di un sole amico di tarda estate e la scarsa presenza di gente, rende una sosta qui davvero piacevole. 

Il Lago d’Isola risplende di luce riflessa rimandando allo sguardo una miriade di scintille verdazzurre. Ma ripreso il cammino, dopo circa due chilometri, è il Lago Dosso a rubare la scena con il suo bacino, modesto ma invitante. In questa stagione si può anche nuotare o avvicinarsi in canoa alle formazioni paludose che lo abbracciano, addentrandosi così in un ecosistema unico. Del resto qui l’acqua non ha solo un valore naturalistico ma anche curativo: di antica fama è, infatti, l’acqua termale del villaggio che già nell’800 richiamava quelli che erano allora i turisti italiani benestanti, in cerca di salute e benessere. 

In realtà, il valico del San Bernardino era assai frequentato già a partire dal XIV secolo. Erano i mercanti provenienti da Sud a spingersi fin qui, così visto il grande traffico sempre in aumento, nel 1487 il conte di Mesocco, Enrico de Sacco, decise di far costruire un Ospizio nel Villaggio di San Bernardino. Qui risiedevano due monaci, pronti ad assistere i viandanti e i pellegrini di passaggio, ma anche impegnati nella manutenzione dei ponti e della strada.

Strada che ci porta più su, verso il Passo. 

Da Gareida Sot, a quota 1691, l’itinerario prosegue a ridosso di Gareida Sora, a quota 1903, in direzione dell’antica strada romana, quella che sbocca direttamente al Laghetto Moesola, a 2064 metri d’altezza. Uno spettacolo nello spettacolo, uno scenario dopo l’altro che non lascia sosta al piacere di sorprendersi. Questo laghetto così accogliente è la sorgente del fiume Moesa, fiume che anima tutta la Valle Mesolcina per sfociare infine nel fiume Ticino.

Accanto al lago, il Ristorante Ospizio s’erge imponente mescolandosi con i grigi delle rocce che lo circondano, ma la calda accoglienza di Marco Albertini e di sua moglie riescono a colorare anche il pallore della pietra. Una buona fetta di torta o un formaggio fatto qui aggiungono sapore al cammino, che può proseguire per ore ed ore seguendo le ramificazioni dei sentieri.

Qui ci si trova nel punto più basso della traversata del valico, in un avvallamento privilegiato dal quale si abbraccia con lo sguardo l’intera architettura naturale di queste montagne che, come una cattedrale a cielo aperto, si distende tra il Pizzo Moesola e il Pizzo Uccello.

Ed eccolo, finalmente, il vero re del San Bernardino: il Mons Avium, ossia il Monte degli Uccelli, come lo chiamavano nel Medio Evo. Quell’urlo estremo della roccia che s’impenna nel cielo e si scorge già alle prime pendici del San Bernardino sovrastando tutta la zona, con i suoi 2724 metri somiglia al becco di un rapace, come tanti osservano.

Personalmente, questo vertiginoso picco appartenente alle Alpi Lepontine mi rimanda piuttosto all’immagine dell’ala aperta di un pterodattilo, una enorme e feroce creatura volante sopravvissuta alla preistoria e rimasta imprigionata nella montagna durante qualche repentina glaciazione. Destinata a restare scolpita per sempre su questa fetta di terra, così magicamente lunare. 

Chissà, magari è proprio così. E tornando sui miei passi, penso che ogni montagna, del resto, abbia sempre i suoi segreti, ed è bello, con un po’ d’immaginazione, cercare di carpirglieli, facendosi discretamente complici dei suoi misteri.