Oberland bernese, una tavolozza di emozioni

Celeste, argento, ocra, turchese, verde e bianco … anzi bianchissimo. 

Attraversare le regioni svizzere che si distendono dal Canton Ticino fino al Canton Berna, passando per il Passo del Gottardo, è come avventurarsi dentro un susseguirsi di dipinti. È possibile raccontare il fluire degli scenari soffermandosi sulle sfumature che accompagnano il viaggio, tinte particolarmente brillanti in questa stagione, rese ancor più vive da un sole complice che accende tutto di energia. 

La sublime solitudine del Passo del Gottardo

Raggiungo le prime anse del Passo del Gottardo poco dopo l’alba, sotto una frizzante coltre celeste dove una luna gravida ancora s’attarda. Neanche io ho fretta. Volutamente evito di imboccare il tunnel per lasciare che lo sguardo spazi libero tra i vortici immensi della montagna, ubriacandomi di piacevoli capogiri. La luce anima questo deserto di pietra infondendogli un aspetto lunare, per qualcuno inquietante, per me affascinante. Le pareti sfumano dal grigio all’argento, fino all’ocra più intenso che s’indora al riverbero del sole ancora giovane e l’intera montagna sembra svegliarsi al primo sbadiglio del giorno. 

Ripesco uno scritto della fine dell’800, uscito dalla penna dell’alpinista Türler, che raccontava così questo scenario: “Quattro laghetti riposano sulla schiena del passo e la loro espressione cupa sottolinea la solennità mortuaria del paesaggio. Le rive sono cosparse di blocchi che la montagna, scotendo il capo, ha gettato laggiù. Un silenzio assoluto, uno squallore senza pari regna in questo deserto di roccia che sembra predestinato a svegliare la malinconia, specialmente quando i paraggi sono nascosti da un velo di nuvole basse e assumono un aspetto di sublime solitudine”. Anche se non avverto alcuna malinconia, trovo perfette queste parole e invidio il privilegio di chi si sia trovato tra le braccia di questo gigante di roccia secoli fa, senza altre presenze umane, senza auto, senza code, senza segno di civiltà alcuna … quale profondo sentimento può germogliare in tanta sublime solitudine!

Difficile dirlo oggi. Il culmine del Passo, a 2091 metri di altezza, è infatti considerato il punto d’incontro delle quattro regioni linguistiche e culturali della Svizzera. E di conseguenza è meta di passaggio e di sosta per migliaia di turisti ed escursionisti, attirati anche dal Museo Nazionale, dall’Ospizio e dai tantissimi sentieri, tra cui quello delle “Quattro sorgenti”. Perché nonostante il suo aspetto austero, il massiccio del Gottardo è anche culla di quattro importanti fiumi – Reno, Reuss, Ticino e Rodano – ed è una bellezza avventurarsi alla scoperta di queste fonti di vita non solo della Svizzera ma d’Europa.

Io mi accontento di una sosta qui al Passo, sufficiente per abbeverarmi d’aria spumeggiante che ricamerà un prezioso ricordo, il primo tra tanti. E proseguo il mio viaggio a colori che mi porterà nel cuore dell’Oberland bernese. 

Il Grande Lago e i suoi fratelli

Scivolo giù verso la ridente Andermatt e dopo un’ora abbondante d’auto finalmente s’apre allo sguardo il Lago dei Quattro Cantoni che costeggio per un buon tratto senza stancarmi d’ammirarlo. Dal deserto di pietra del Gottardo eccomi alla liquida pacatezza di un lago che somiglia al mare norvegese tanto è vasto e ricco di insenature. Si perdono i confini nel turchese delle sue acque che lambiscono i cantoni Uri, Svitto, Untervaldo e Lucerna. Ogni città e ogni villaggio che s’affacciano su questo profondo specchio meritano una visita, un viaggio a parte, per esplorare non solo la natura ma anche la storia della Confederazione che qui ha origine. Tuttavia, ora la mia meta è un’altra e lascio temporaneamente alle spalle il Grande Lago che i battelli da crociera, con la loro fluttuante silhouette bianca, hanno gentilmente addomesticato al turismo. 

In verità, poco oltre, sono altri i laghetti che, con la loro modesta grazia, definitivamente mi innamorano. Il primo è il Lago di Sarnen, con i suoi villaggi rivieraschi che sembrano finti tanto son perfetti. E il secondo è il Lago di Lungern, nel Cantone Obvaldo, talmente pittoresco che non posso non fermarmi. Come poso piede sul sentiero che lo costeggia eleggo questo luogo come mia dimora ideale. C’è poco da dire: verdi colline incorniciate in lontananza dalle Alpi innevate, manciate di casupole affacciate sull’acqua cristallina, distribuite qua e là nel rispetto della reciproca convivenza. Regna una pace assoluta qui, un silenzio benedetto, interrotto solo dal canto delle cicale e dal sibilo della lenza di qualche pescatore appollaiato all’ombra delle piante sulla riva. Se anche il mondo cascasse, qui nessuno se ne accorgerebbe – penso – e un po’ a malincuore saluto il mio piccolo lago, con la promessa di tornarci.

Interlaken e Lauterbrunnen, sulle tracce di Goethe

Proseguo per altri trenta chilometri circa, la prossima sosta sarà a Interlaken, nel cuore dell’Oberland bernese. Il sole è ormai maturo e riempie ogni cosa, dai fili d’erba del grande prato antistante il centro storico, alle aiuole di fiori curate con maniacale minuzia, ai tavolini affollati di gente. Inter lacus: il nome deriva dal fatto che questa deliziosa cittadina si colloca tra due laghi, quello di Thun e quello di Brienz, il che la rende ideale come punto di partenza per passeggiate fiabesche tra acqua e monti. Goethe aveva amato particolarmente Interlaken e in generale tutto l’Oberland bernese, sorvegliato da sua maestà Jungfrau, la vetta più alta d’Europa. Pare che  lo scrittore amasse scappare in Svizzera per trovar pace nella natura, data la sua irrequietezza nei confronti delle sue numerose amicizie femminili, che difficilmente riusciva a governare. In effetti, anche se Interlaken oggi è diventata una cittadina di lusso, mantiene una sua intimità fedele alla natura e ai trascorsi storici, ancora evidenti negli edifici e rievocati dalle tipiche carrozze coi cavalli.

Ma credo che Goethe, come me, avrà preferito rifugiarsi nella valle di Grindelwald o in quella rigenerante di Lauterbrunnen, poco distante. Mi attende un’esplosione di prati verdissimi, di balconcini ricamati di fiori, imponenti cascate che incessantemente fuoriescono dalle ripide pareti rocciose. Tutto è energia qui, si potrebbe camminare senza sosta e caricarsi di forza, passo dopo passo, senza mai stancarsi. M’infilo all’interno della montagna per ascoltare dal di dentro la Cascata di Staubbach, una nube di vaporosa pioggia aleggia nell’aria freschissima, sospesa come il tempo. Tempo che questi villaggi hanno saputo scolpire con la loro immutata bellezza. Ma, ancora una volta, la mia meta è oltre e devo ridiscendere. Wengen mi aspetta e per raggiungerla non mi resta che lasciare l’auto e prendere il treno, perché Wengen – ai piedi della Jungfrau – è un villaggio consacrato totalmente alla natura e pertanto le auto sono bandite.  

Da Wengen a sua Maestà Jungfrau, la Vergine bianca

Siamo già oltre i 1270 metri d’altezza e si sente. L’aria è intiepidita dal sole potente del tardo pomeriggio ed è una vera fortuna essere accolti qui da temperature così alte. La piccola città, nota per le discese di sci, è accoccolata tra il Männlichen e la Jungfrau, montagne che rappresentano un paradiso per alpinisti, scalatori, escursionisti, poeti e innamorati. Sì, perché non ci si può sottrarre a un sentimento d’amore nel trovarsi immersi e avvolti da tanta verginale bellezza. Ogni punto in cui lo sguardo si posa è un incanto che muta con il variare della luce: la Vergine bianca si tinge di rosa in questo tramonto di piena estate, non una nuvola a offuscarne lo splendore, e l’impazienza di conquistarla l’indomani mi carica di eccitazione!

Lo Jungfraujoch, il passo tra le montagne Jungfrau e Mönch, con i suoi 3466 metri è il punto più alto d’Europa. Raggiungere la vetta con il trenino rosso della Wengernalpbahn è già di per sé un’esperienza ed è impossibile non pensare all’imponenza dei lavori che l’uomo è stato capace di affrontare per conquistare la montagna. Uomini per lo più italiani, veri eroi della fatica e del sacrificio, che nel 1896 diedero il via alla costruzione della ferrovia, verso Kleine Scheidegg – Eiger – Mönch – Jungfrau, realizzando così il sogno quasi visionario del “re” della ferrovia, Adolf Guyer-Zeller. Nell’agosto 2012 l’inaugurazione, un vanto per l’intera Svizzera ma anche per tutta l’Europa. A poco dall’arrivo, mi trovo immersa nell’Eismer, letteralmente un “mare di ghiaccio”. In effetti il susseguirsi di crepacci di roccia e seracchi mi fanno immaginare le onde di un mare in burrasca, in perenne movimento, piuttosto che un gigante statico di roccia e ghiaccio.

Giunta in vetta, fuoriesco dalle viscere pietrose camminando molto lentamente, perché l’altezza trasmette un vago capogiro e il fiato si fa corto per via dell’aria rarefatta. La sensazione di spossatezza mi fa pensare che sia la montagna a conquistare noi, e non viceversa, bisogna avvicinarla dunque con garbo. Dal buio umido del tunnel sbuco felicemente alla terrazza dove un sole spietato inonda il ghiacciaio dell’Aletsch rendendolo ancora più abbagliante. Spazia lo sguardo nell’infinito candore baciato dal cielo, dalla Foresta nera tedesca ai Vosgi francesi, e nonostante tutte le attrazioni e gli svaghi possibili qui, preferisco ritirarmi in un fazzoletto di bianco lontano da tutto, per gustarmi in pace la pienezza del momento. I corvi delle alpi, con le loro piume vellutate, sorvegliano i movimenti degli umani, e il contrasto tra queste creature color della pece e il candore della Vergine mi fa pensare a loro come ad Angeli espulsi dal Paradiso per chissà quali peccati. Ma come … non è forse questo il Paradiso?

Si dice che almeno una volta nella vita bisogna venire qui. Ebbene eccomi. E prima di ripartire lasciando le mie impronte nella neve, ringrazio silenziosamente la Vergine bianca per avermi ospitato, almeno una volta nella mia vita, nel suo vertiginoso abbraccio.

Thun e Berna, dalla piccola Venezia alla Città degli Orsi

La mattina seguente riprendo il treno per Lauterbrunnen, con ancora negli occhi il tramonto che la sera prima aveva colorato Wengen come una pesca matura. Ripresa l’auto, si punta verso Thun, all’estremità inferiore dell’omonimo lago. Il centro storico con il suo bel castello sembra un arazzo e l’illusione di essere catapultati all’epoca cavalleresca è potente, se non fosse per i tanti caffè e ristorantini affollatissimi di turisti. Nemmeno l’eco qui di contagiosi virus, tutt’altro, solo la palpabile allegrezza consumata lungo i canali che fiancheggiano l’Aar, tanto impetuoso al di qua del Ponte vecchio, quanto mite alle sue spalle. Questa “piccola Venezia”, la città ideale di Leonardo, ha una sua particolarità nella Obere Hauptgasse, la via principale con i larghi marciapiedi sopraelevati, unici in tutta Europa, costruiti in modo che i pedoni possano camminare su un percorso separato dalla strada. Un susseguirsi di negozietti e botteghe completa il dipinto e quest’armoniosa mescolanza tra passato e presente rende Thun particolarmente simpatica, una vecchia signora dal cuore giovane.

Solo una trentina di chilometri e mi ritrovo all’ultima tappa di questo coloratissimo mini viaggio: Berna. Poche città al mondo hanno saputo conservare il carattere storico come questa, infatti il centro storico con i suoi sei chilometri di arcate e le cento fontane è Patrimonio dell’Unesco. Quale sede del Governo, Berna ha ovviamente anche un’importanza politica ed economica centrale, eppure tanta solennità si stempera nei colori della natura che incornicia la città. La incornicia con infinite colline verdeggianti, e la attraversa con l’imponenza dell’Aar, un fiume gigante e amico, normalmente punteggiato di bagnanti che si lasciano cullare e trascinare dalle sue correnti rinfrescanti. Lo farei anch’io, ci fosse solo il tempo… L’atmosfera della città, fremente di tram e di biciclette, viene colta nel suo insieme raggiungendo il Giardino delle rose, verso la Fossa degli orsi, visibilmente anelanti con questo insolito caldo. Li guardo con un po’ di pena mentre cercano riparo all’ombra e poi mi rituffo verso il centro dove anche i negozi hanno saputo rispettare la storia della città. Molti, infatti, sono sotterranei, ricavati dalle antiche cantine delle abitazioni in cui si conservava il carbone e le tipiche volte a botte ne evocano le origini.

Rubate le ultime foto ai monumenti storici più simbolici, saluto Berna con un arrivederci. Ripercorrendo la strada per il rientro verso il Ticino – con una breve digressione ad Altdorf sulle tracce di Guglielmo Tell – penso che questi tre giorni siano stati in realtà moltiplicati per la varietà di panorami, le sfumature del cielo, l’intensità di emozioni…

Forse è vero che certi luoghi hanno il potere di sospendere il tempo, di fermare l’inesorabile, e di sicuro l’Oberland bernese è uno di questi.