Nelle Gole della Breggia, un tuffo nella preistoria

Gole della Breggia

Rivoli d’acqua cristallina, felci brillanti di sole e libellule blu. 

Quello che pare essere uno scorcio rubato a qualche fiaba è, in realtà, il benvenuto del Parco delle Gole della Breggia, nel Mendrisiotto. Una delicata esplosione della natura perfettamente conservata a due passi dai centri urbani, un’oasi di silenzi liquidi che fa dimenticare i brulicanti centri commerciali poco distanti.

Non par vero: poter riavvolgere il tempo a ritroso fino a tornare nella più profonda preistoria in soli pochi chilometri riassunti in quella che, una volta, era chiamata la Valle dei mulini, tra i comuni di Morbio Inferiore, Balerna, Castel San Pietro e Morbio Superiore.

Questa fiabesca pianura ha un’anima. È il fiume Breggia che le scorre dentro infondendole quell’aura magica che la contraddistingue. Affioramenti improvvisi, laghetti e cascate giocano a farsi largo tra i sedimenti dalle sfumature più improbabili, testimonianze della vita che fu. Ha le sorgenti sul Monte d’Orimento e attraversa tutta la Valle di Muggio fino a sfociare nella pianura di Chiasso dove, girando verso est, s’immette nel lago di Como.

Molti qui vengono semplicemente per respirare un po’ di pace o rinfrescarsi nelle acque rigeneranti, senza pensare d’immergersi anche in una dimensione temporale amena, di primordialità. 

Qui è ospitata la storia geologica di circa 200 milioni di anni, tra il Giurassico (190-136 milioni di anni fa) e il Cretaceo (136-65 milioni di anni fa) e una serie di punti didattici lungo i sentieri, chiamati Geostop, ne raccontano l’evoluzione. 

Lasciando le libellule blu alle loro danze alate, l’avventura a ritroso nel tempo ha inizio procedendo tra facili sentieri, scale e ponti in legno ricavati dai fianchi delle montagne.

Le rocce più antiche, di 190 milioni di anni fa, sono evidenti attorno al Mulin da Canaa, dove il letto del fiume è lastricato di Calcare selcifero lombardo, di colore grigio pallido, la medesima roccia che compone quasi tutto il Monte Generoso. Il primo strato di Calcari a Cefalopodi, di color rosso argilla, è seguito dai toni rosei e violetti dell’Ammonitico rosso, così detto perché ricco di piccole Ammoniti. Seguono i calcari marnosi dalle sfumature azzurrognole e verdastre, un gioco cromatico che ben s’ambienta tra acqua, cielo e vegetazione.

Ma non sono solo i colori a sedurre. Poco prima della cascata principale, dove la gola si restringe, gli strati di rocce pare si ripieghino su se stessi fino ad annodarsi in un morbido abbraccio. Sembrano vivi, e lo sono in fin dei conti, perché la Terra è in costante evoluzione. 

Più a valle, uscendo dalle gole, colpisce il bagliore del Biancone, uno spaccato di calcare quasi puro composto da un’infinità di organismi fossili. Tra gli anni ’60 e ‘70 veniva estratto per la produzione di cemento, parentesi di conversione urbana delle Gole della Breggia, culminata con la costruzione del cementificio, oggi abbandonato lì come un enorme carcassa arenata alle falde dei nostri tempi. Al contrario, il Biancone è sopravvissuto e poco oltre dà spazio agli strati di Scaglia variegata, Scaglia bianca e Scaglia rossa del tardo Cretaceo, là dove il fiume curva verso est. Chiudono l’escursione nel tempo gli ultimi strati del Flysch, arenarie alternate a scisti argillosi e sabbiosi, palpitanti di memorie.

Le immancabili frecce gialle guidano l’escursione, e i punti di sosta dove fermarsi ad ammirare questo primitivo splendore sono tanti. Il Laghetto del Ghitello è un primo alveo attraente, un po’ troppo civile e frequentato però per i miei desideri. Proseguendo oltre, ul Punt da Canaa è il vecchio ponte nel fondovalle, con cui l’antica strada che da Castel San Pietro portava a Morbio Superiore scavalcava la Breggia. Il suo nome vien dal fatto che da lì partiva il canale di alimentazione del vicino mulino. 

Ul Punt dal Farügin, invece, è collocato a circa 300 m più a sud, presso il Buzún dal Diávul. Incuriosita dal suo nome, ho scoperto che è dovuto alla presenza in questa zona di una bolla d’acqua, che “fa ruggine”. 

Si arriva poi al Prato delle Streghe, evocativo di chissà quali riti magici praticati da elfi e folletti, in realtà punto di sosta per i moderni viandanti che qui hanno anche la possibilità di fare un picnic.

Non solo natura: seguendo le frecce gialle si arriva ai resti del Castrum Sancti Petri (rocca medievale che diede il nome a Castel San Pietro) e alla Chiesa Rossa di Castel San Pietro (costruita dal vescovo di Como Bonifacio da Modena nel 1343). Un bel prato con una fontana la incornicia di quiete. Da qui si può ridiscendere da un altro sentiero, completando ad anello il percorso, accompagnati sempre dalla voce dell’acqua scrosciante e dal canto delle cicale, per riaffiorare nel nostro tempo e ritrovare le belle libellule blu.

Non si vedevano da anni, dicono. Chissà, magari anche loro sono riemerse da un lontano passato … magari sono proprio le Streghe del Prato, trasformate da qualche elfo in libellule, imprigionate per l’eternità a danzare in silenzio. Destinate ad incantare i viandanti moderni senza poter svelare i veri segreti del Parco delle Gole della Breggia.