L’arte del vestire, una trama senza fine

Buio notte in sottofondo, una donna in perizoma in primo piano e due uomini ai suoi piedi armati di misteriosi oggetti simili a pistole.

È la scenografia più spettacolare che ha animato la scorsa fashion week parigina, un finale più che a sorpresa della sfilata di Coperni per la collezione primavera-estate 2023. In un batter d’occhio il video fa il giro del mondo. La sala ottocentesca che ospita l’evento scompare, il pubblico ammutolisce e in una manciata di minuti il corpo seminudo della mannequine americana Bella Hadid viene “vestito” da mirati getti bianchi, spruzzati da due bombolette spray. Come candida neve, l’enigmatica scia si posa sulla pelle della ragazza con studiata precisione, fino a solidificarsi sofficemente per sublimare, infine, la figura femminea in un elegante abito lungo. Forbici, estro creativo e le mani sapienti di una stilista completano il miracolo in diretta. È il primo abito spray prêt-à-porter, sfoggiato disinvoltamente come qualsiasi altro capo d’alta sartoria pensato, disegnato, cucito e rifinito a mano. 

Non è magia ma un mix di biopolimeri e solventi ecologici che, lasciando evaporare gli elementi liquidi, si materializza in un vero e proprio tessuto da lavorare a piacere. 

La spettacolarità di questo atto creativo in passerella è tanto stupefacente quanto disarmante e un certo timore assale chi fa parte del mestiere: davvero il buon vecchio made in Italy del tessile potrebbe essere spruzzato via da uno spray? Esisteranno ancora i tessitori e i tintori?

Queste domande mi sorgono spontanee, appartenendo a una famiglia da sempre legata al mondo del tessile e della tintoria, così come tante altre famiglie che ancora lo sono nella mia città natale. Non a caso, Busto Arsizio venne definita la Manchester d’Italia. Il suo Museo del Tessile custodisce le memorie secolari di un mestiere che ha reso grande questa città lombarda. 

Così, al cospetto di un’innovazione quasi fantascientifica, sembra di trovarsi di fronte a una neonata creatura ancora in divenire rispetto al ben noto calabrone il cui volo, secondo i fisici della NASA, sarebbe stato impossibile. Naturalmente il calabrone è l’industria tessile tradizionale, la quale, con perseveranza, tira i fili del suo Essere sin dal Medioevo, quando l’Italia ne era già la fucina. Artigiani, sarti, maestri del tingere e del cucire hanno vestito donne e uomini di ogni tempo, facendo sognare papi e re, nobilitando insieme ai tessuti anche i personaggi che ne sfoggiavano gli abiti. Abiti fatti a mano, abiti su misura. Termini che evocano una dimensione tanto importante quanto sfuggevole di questo mestiere: il tempo. Perché dal filo al tessuto, dal colore al finissaggio, dalla stoffa alla confezione di un abito, il procedere è fatto di cicli ben articolati, di controlli ripetuti e rigorosi, operati su ogni fase di lavorazione. Un’esasperazione indispensabile che per la maggior parte di noi è scontata o, peggio, sconosciuta. Eppure, questa è l’anima dell’eccellenza italiana, di quel made in Italy che, nonostante ogni avversità, tutto il mondo continua ad ammirare. 

Ci vuole tempo, dunque, per fare bene qualcosa. Lo sanno le famiglie che, di generazione in generazione, hanno dato vita a piccole e grandi imprese, firmando la storia del tessile e abbigliamento italiano. Difficile segnare un punto di partenza preciso: dai fustagnari del 1300 o dai grandi cotonieri dell’800 che hanno avviato le basi di un’industria fiera ma al contempo umile, perché l’ambiente tessile in origine era strettamente famigliare, una realtà molto simile a chi fa vino anzichè stoffa. Famiglie contadine che durante l’inverno dedicavano il proprio tempo alla lavorazione di lana, seta o cotone grezzi, portati dai mercanti. Ancora alla fine del’800 molti tessitori della mia città avevano il telaio in casa, o in un capannone attiguo; il profumo di cotone impregnava l’aria e il ritmo era scandito dalle battute della macchina. Le cataste di pezze, le operaie avvolte in pesanti tabarri, i bambini che aiutavano nel lavoro come fosse un gioco. La mia città era così: un fervore di mani operose che trasformavano fili di trama e di ordito nei tradizionali tessuti di bombasina, traliccio e fustagno. Lavoro che si fermava solo qualche ora la notte. Un tassello di storia in fondo non così lontano, che evoca lentezza, affiatamento e dialogo. Un calore umano destinato ad affievolirsi, quando l’industria è via via cresciuta di dimensioni per beneficiare delle cosiddette economie di scala rivoluzionando il mestiere, le abitudini e la mentalità delle persone coinvolte. 

Dunque, ogni tradizione è destinata a innovarsi e il tessile è solo un archetipo della naturale evoluzione del mondo. Ma nella moda, in particolare, tutto è ciclico: se l’innovazione è figlia di una distruzione creativa, come ci ha insegnato Schumpeter, la tradizione resiste sempre accanto alla novità, perché puntualmente riconsegna il senso del bello e ben fatto e il bello – si sa – salverà il mondo.

Il calabrone, dunque, continuerà a volare. Anche perché, in realtà, i calcoli su cui si basava l’impossibilità del suo volo si sono rivelati errati, nonostante la smentita ufficiale non abbia mai raggiunto la popolarità della credenza errata.

Per concludere, la bellezza di un abito spray rischia davvero di spazzar via il valore di secoli di tradizioni? Sorridono gli imprenditori tessili ai quali lo domando, un sorriso carico della stessa voglia di fare che animava i loro avi, alle prese con altrettante sfide da vincere. La risposta di uno di loro mi basta: no, perché la gente desidera vestirsi di futuro ma soprattutto ha bisogno di ciò che resiste nel tempo! Una trama senza fine. 

Pubblicato su Bubble’s n. 17