Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà

É il 10 gennaio 1960. Siamo in una stanza di ospedale, a Fontainebleau. Albert Camus disteso nel letto a causa di un grave incidente d’auto. Seduto accanto, il suo carissimo amico Jacques Monod, preoccupato per le condizioni dello scrittore, immobile ma estremamente lucido. Sulle ginocchia del genetista, un manoscritto, ciò che ancora li lega in questo flebile respiro di vita. Si tratta delle bozze di un libro che i due amici intellettuali stanno scrivendo insieme partendo dalla convinzione condivisa che tutto nell’universo abbia una Fine, universo compreso. 

La consapevolezza della finitudine della Terra, delle specie animali e vegetali, di ogni realtà vivente che palpiti e respiri e, dunque, dell’uomo, viene ponderata con meticolosità chirurgica, alla luce della visione incredibilmente lungimirante di Lucrezio il quale, già nel De rerum natura (I secolo a.C.), immaginava come i mari, le terre e il cielo andranno in rovina in un sol giorno tra immani cataclismi, un sol giorno non poi così lontano.

Il dialogo immaginario tra Camus e Monod è frutto della mente di Telmo Pievani che fa di “Finitudine” un romanzo filosofico tentacolare, perché le argomentazioni attribuite ai due amici sono potenti, inquietanti, irrisolvibili e, soprattutto, appartengono atavicamente ad ognuno di noi. Esseri finiti.

La galoppata nel tempo che si respira in queste pagine è vertiginosa e ciò è paradossale visto che il capolinea pare imminente. Da un lato, l’immensamente grande: la Terra. La sua vita cominciò circa tre miliardi e mezzo di anni fa, ed essendo la stima della sua durata di quattro miliardi e mezzo di anni, le resta ancora un miliardo di anni, a meno che il Sole non decida di fare prima le bizze. Dall’altro lato, l’immensamente piccolo: l’uomo. Se si compara l’arco di vita della Terra a quella media di un uomo, (72 anni circa perché siamo negli anni ’60), si scopre che anch’esso, come la Terra, sta per raggiungere una fine prossima. La Terra è vecchia, e non solo lei.

Lo sguardo laico e disincantato alla mortalità di ogni cosa è inquietante e nessun appiglio a qualsivoglia teoria scientifica può coccolarci con risposte rassicuranti. “Il pensiero della finitudine sgretola le consuetudini, apre un vuoto, uno squarcio … Ci accorgiamo di vivere per un dopo che non ci sarà e intanto perdiamo l’unica occasione che abbiamo avuto … impostiamo la vita su traguardi progressivi, come fosse una carriera: quando finirà la scuola, quando si metterà su famiglia, quando avremo il lavoro che vogliamo … E intanto invecchiamo!

Come trovare, dunque, un senso all’esistenza convivendo con la nostra misera finitezza? Forse i due premi Nobel, Camus e Monod, l’hanno trovato partorendo le proprie opere e lasciando così ai posteri un’eredità intellettuale scolpita nel tempo. Ma noi? Noi piccoli Esseri alle prese con le gioie e gli affanni di ogni giorno, come godersi lo spettacolo della vita sapendo che si sta sgretolando nell’istante stesso in cui lo stiamo vivendo?

Un tentativo di risposta arriva all’ultima pagina di Finitudine: “Anche se ognuno di noi finirà, anche se le galassie si raffredderanno, anche se tutto cadrà in una notte perpetua, nulla potrà cancellare il fatto che, in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla.

Non resta che far propria questa riflessione e tenercela stretta come fosse una coperta calda cui ricorrere in caso di bisogno. Una coperta che abbraccia noi, i nostri genitori, i nostri figli, i nostri amati e i nostri nemici. Perché tutti siamo Esseri finiti ma anche Esseri sfidanti.