Affresco gigliese. Un brindisi ambrato con gli amici di sempre

Una leggenda narra che, un giorno, la preziosa collana di Venere si spezzò irrimediabilmente. Ma le sue perle, anziché disperdersi, ruzzolarono fino a scivolare negli abissi smeraldini del Mar Tirreno. Così facendo diedero vita alle sette isole dell’Arcipelago toscano. Una di queste è l’Isola del Giglio.

Una perla dal cuore di granito, la cui conformazione aspra sfida tanto il vento quanto l’addomesticamento umano che, infatti, nei secoli ha imparato a rispettarne il temperamento selvatico, conservando in gran parte la sua verginità.

Già avvicinarsi in traghetto a Giglio Porto, con le sue allegre casette multicolore, è un’immersione nel blu e lo sguardo sprofonda fino a perdersi tra le praterie di posidonia, spugne e gorgonie per riemergere, prendere aria e decollare verso il piccolo vecchio faro bianco che campeggia sornione sulla collina, poco oltre il Castello. Il dedalo di sentieri e di mulattiere che innerva l’isola non si coglie ad occhio nudo, perché sovrastato da una fitta macchia mediterranea che con le sue infinite sfumature di verde ricama i fianchi delle colline e ruba la scena. 

Approdare è sempre un’emozione perché si ritrovano esattamente gli stessi colori pastello di un affresco in cui pare di essere già stati protagonisti, salutati dai due fari sul molo e dalla torre saracena, fiera delle sue antiche memorie. 

Si è di passaggio qui eppure sempre presenti. Parte integrante di quel viavai di gente che fuoriesce dal ventre del traghetto e s’incammina svelta nelle viuzze pietrose del centro per diramarsi chi a Campese, chi a Castello, chi all’Arenella, alle Cannelle o alle Caldane. Mentre gli isolani, seduti a gruppetti al porto, osservano l’ennesimo carico di turisti che invade la loro bella terra, un po’ gelosi, un po’ curiosi ma certamente fieri di esibire il gioiello che abitano.

Chi già conosce quest’isola sa che ognuno dei suoi angoli, dalle spiagge alle colline ai nuclei storici, possiede qualcosa di magico. E per questo ci torna. Chi invece non ci è ancora stato possa, con queste brevi pennellate di emozioni, animarsi del desiderio di venir qui, possibilmente non da semplice vacanziero ma, piuttosto, da amante al suo primo appuntamento con la donna anelata.

Ecco, penso che l’Isola del Giglio debba essere corteggiata, avvicinata con garbo in modo che si lasci conoscere lentamente per mostrare, sotto la corazza che la protegge, tutta la sua dolcezza. Dolcezza che si respira circumnavigando la costa a bordo di un piccolo gozzo, senza fretta, gustando il piacere di sorprendersi ansa dopo ansa, tanta è la bellezza dei paesaggi che si profilano in quel cobalto liquido. 

Dolcezza che si ritrova riassunta anche in un calice di Ansonaco, il buon vino dell’isola ricavato prevalentemente da vitigni autoctoni di uva Ansonica, coltivati su piccoli terrazzamenti a picco sul mare, le greppe, davvero ardui da raggiungere e spesso lavorati solo con le zappe. Una viticoltura eroica questa, portata avanti da pochi caparbi vignaioli. Senza dubbio il miglior prodotto è quello fatto in casa dagli isolani, orgogliosi di condividere questo nettare color del sole con gli amici di sempre. 

Ed è proprio uno di questi vecchi amici a completare una splendida giornata trascorsa al Giglio con quello che non poteva mancare: una bottiglia di Ansonaco fatto da lui. Giorgio, pensionato gigliese doc., coltiva e accudisce da anni le sue piccole greppe a Serrone, Corvo e Radice, ed è un privilegio poter sorseggiare quello che dalle sue mani nasce. “Ne faccio poco, per berlo io con gli amici …” ci tiene a sottolineare quando gli domando se posso comprare qualche bottiglia da portare via. E allora lo apprezzo qui, ripromettendomi di portar via solo i bei ricordi e i racconti scambiati attorno al tavolo di una sera di tarda estate. 

Ascoltandolo, imparo molto. Innanzitutto questo vitigno a bacca bianca è molto antico sull’isola, veniva coltivato già nell’800. E nei primi del ‘900 era diffusa anche una versione più dolce e liquorosa, l’Ansonica passola, prodotta per il piacere di consumarla in famiglia e con gli amici. Un po’ come oggi. Imparo anche che le costruzioni in pietra, che avevo incontrato nel pomeriggio camminando su e giù per l’isola, sono i caratteristici palmenti, vasche scavate nel granito utilizzate un tempo per la vinificazione. Sono circa 200 sparsi sulle colline, spesso nascosti dalla fitta vegetazione, alcuni addirittura di origine preistorica, altri d’epoca etrusco-romana. Nel frattempo beviamo, rallegrando l’ottima cena preparata dal padrone di casa. La bottiglia non ha etichetta, naturalmente, ma a naso stiamo sorseggiando un nettare di almeno 14.5°. E di fatti è così, anche se a volte il vino di Giorgio raggiunge i 17°. È il sole a dargli tanta energia, spiega, ma per far sì che le vigne possano abbeverarsene al meglio occorre legare i tralci con la ginestra, un lavoro certosino ma necessario. Questo per proteggerli dal forte vento ma anche per dar sostegno ai grappoli d’uva, che maturano ricchi e pesanti. È un accorgimento antico, tipico dell’isola, così come tipici sono i muri a secco che ospitano gli “alberelli bassi”, simbolo della viticoltura mediterranea, che contribuiscono a disegnare la fisionomia del Giglio. 

Versando quel che resta del suo vino nei nostri bicchieri, Giorgio ci tiene a sottolineare la cosa più importante: tutto il suo lavoro è fatto a mano “a mano per davvero però!” e anche con i piedi! Sì, con i piedi scalzi e i pantaloni arrotolati sulla gamba, perché ancora oggi pigia l’uva insieme alle vinacce esattamente come facevano un tempo i gigliesi, con la stessa fatica e la medesima soddisfazione. Capisco allora che delle 4 o 5 damigiane prodotte all’anno possa essere, giustamente, non solo fiero ma anche geloso. 

Un ultimo brindisi tra vecchi amici riuniti in un giardino che protegge dal resto del mondo. Pare d’essere su un’isola dentro l’Isola! Le ultime voci in lontananza sfumano per le viuzze e piano piano si spengono nel silenzio della notte. Resta acceso, invece, il piacere ambrato e salmastro decantato al tremore pallido di una candela che ammicca alle stelle, in questo memorabile affresco gigliese.  

Pubblicato su Bubble’s Italia Magazine n.10

Le foto ritraggono l’Ambrato di Radice, di Cantine Scarfò

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