Il 17 luglio ricorre il primo anniversario della morte di Andrea Camilleri. Mi piace ricordarlo con un’ampia citazione presa dal romanzo La gita a Tindari. In particolare mi ha sempre colpito un riferimento all’olivo saraceno, le cui radici ricordano quelle di un essere umano. Ecco: le radici, dell’albero e nostre, rappresentano per me la libertà.
“Il grande aulivo saraceno era davanti a lui, agonizzante, dopo essere stato sradicato e getta ‘n terra. Agonizzava, gli avevano staccato i rami dal tronco con la sega elettrica, il tronco stesso era stato già profondamente ferito dalla scure. Le foglie si erano accartocciate e stavano seccando. Montalbano si rese conto confusamente che si era messo a chiangiri.”
Andrea Camilleri
L’amore per la Sicilia è un sentimento che somiglia al fuoco: s’accende come una fiammella, riscalda come un focolare e brucia come un incendio. Almeno per me è così: avvolgente, penetrante, implacabile.
Colpa, o merito, della sicilianità: un’impronta inalterabile, refrattaria al tempo e alle regole, fatta di colori forti, di sapori contrastanti che se provi una volta, poi non dimentichi più. Mescola la semplicità all’orgoglio, la generosità alla fierezza, l’umiltà alla passione, le lacrime al sangue, l’Uomo alla Terra, il Paradiso all’Inferno.
I romanzi di Andrea Camilleri trasudano di questo sentimento così viscerale e coinvolgono il lettore fino a strappargli il libro di mano e portarlo via con sé, travolgendolo con un linguaggio denso di passionalità.
Pagina dopo pagina, sembra che le parole prendano vita, come in quei racconti per bambini, in cui dal libro aperto s’ergono magicamente boschi e castelli, principi e fate, orchi e regine, creature favolose da toccare, stagliate nella carta, eppure così vive, così reali!
Spesso mi è capitato di perdermi nei romanzi di Camilleri. È stato leggendo La gita a Tindari, per esempio, tanti anni fa (ma lo ricordo ancora bene), che circa a metà libro, mi son figurata passeggiare anch’io per le campagne assolate poco lontano dal mare, quando tutt’a un tratto si è animato davanti a me un magnifico olivo saraceno … un olivo che pareva umano tanto era bello, forte e vigoroso!
Sì, somigliava a un uomo. Pareva persino che sospirasse e mi parlasse: sembrava un vecchio saggio che conservava nella sua memoria un’infinità di vite vissute, tremende e magnifiche, tutte da scoprire. Così, risucchiata nel racconto, mi sono ritrovata seduta ai suoi piedi in silenzio, accanto a Montalbano, ad ascoltare e a condividere un sentimento profondo, acuto, feroce d’amore e di rabbia, un sentimento che bruciava come il fuoco. E oggi, a distanza di alcuni anni, queste righe che parlano d’un olivo somigliano più che mai alla storia di un uomo, anzi, di moltissimi uomini, ognuno con la sua vita da raccontare. Ognuna diversa, eppure, alla fine, tutte tragicamente uguali.
“Pareva un àrbolo finto, di teatro, nisciùto dalla fantasia di un Gustavo Doré, una possibile illustrazione per l’Inferno dantesco. I rami più bassi strisciavano e si contorcevano terraterra, rami che, per quanto tentassero, non ce la facevano a issarsi verso il cielo e che a un certo punto del loro avanzare se la ripinsavano e decidevano di tornare narrè verso il tronco facendo una specie di curva a gomito o, in certi casi, un vero e proprio nodo. Poco doppo però cangiavano idea e tornavano indietro, come scantati alla vista del tronco potente, ma spirtusato, abbrusciato, arrugato dagli anni. E, nel tornare narrè, i rami seguivano una direzione diversa dalla precedente. Erano in tutto simili a scorsoni, pitoni, boa, anaconda di colpo metamorfosizzati in rami d’ulivo. Parevano disperarsi, addannarsi per quella magarìa che li aveva congelati, “canditi”, avrebbe detto Montale, in una eternità di tragica fuga impossibile. I rami mezzani, toccata sì e no una metrata di lunghezza, di subito venivano pigliati dal dubbio se dirigersi verso l’alto o se puntare alla terra per ricongiungersi con le radici.
…Montalbano, quando non aveva gana d’aria di mare, sostituiva la passiata lungo il braccio del molo di levante con la visita all’arbolo d’ulivo. Assittato a cavasè sopra uno dei rami bassi, s’addrumava una sigaretta e principiava a ragionare sulle facenne da risolvere. Aveva scoperto che, in qualche misterioso modo, l’intricarsi, l’avvilupparsi, il contorcersi, il sovrapporsi, il labirinto insomma della ramature, rispecchiava quasi mimeticamente quello che succedeva dintra alla sua testa, l’intreccio delle ipotesi, l’accavallarisi dei ragionamenti.
… Isando gli occhi e la testa per far calare meglio la prima tirata di fumo, il commissario s’addunò di un braccio dell’ulivo che faceva un cammino impossibile, spigoli, curve strette, balzi avanti e narrè, in un punto pareva addirittura un vecchio termosifone a tre elementi. “No, non mi freghi” gli murmuriò Montalbano respingendo l’invito. Ancora non c’era bisogno di acrobazie, per ora bastavano i fatti, solamente i fatti.
… Per una mezzorata se ne stette a panza all’aria, senza mai staccare lo sguardo dall’àrbolo. E più lo taliava, più l’ulivo gli si spiegava, gli contava come il gioco del tempo l’avesse intortato, lacerato, come l’acqua e il vento l’avessero anno appresso anno obbligato a pigliare quella forma che non era capriccio o caso, ma conseguenza di necessità. Quando arrivò nella parte di darrè la villetta, andò a sbattere contro quella che sulle prime gli parse una troffa di spinasanta. Puntò la pila, talio meglio e fece un urlo. Aveva visto un morto. O meglio, un moribondo. Il grande aulivo saraceno era davanti a lui, agonizzante, dopo essere stato sradicato e getta ‘n terra. Agonizzava, gli avevano staccato i rami dal tronco con la sega elettrica, il tronco stesso era stato già profondamente ferito dalla scure. Le foglie si erano accartocciate e stavano seccando. Montalbano si rese conto confusamente che si era messo a chiangiri, tirava su il moccaro che gli nisciva dal naso aspirando a sussulti come fanno i picciliddri. Allungò una mano, la posò sul chiaro di una larga ferita, senti’ sotto il palmo ancora tanticchia d’umidità di linfa che se ne stava andando a picca a picca come fa il sangue di un uomo che muore dissanguato. Levò la mano dalla ferita e staccò ‘na poco di foglie che fecero ancora resistenza, se le mise in sacchetta. Poi dal chianto passò ad una specie di raggia lucida, controllata …”
Chiudendo il libro, ho chiuso anche gli occhi con voluta forza e mi son vista lì, a terra dove poco prima s’ergeva fiero quell’olivo ormai agonizzante, esanime, inutile. E ho sentito rabbia e dolore anch’io in quel momento, e oggi più di allora. Perché da quell’istante ho capito il senso di quella somiglianza, ho capito quanto l’olivo fosse davvero simile all’uomo. Non solo nel suo vigore, nella sua bellezza e nella sua fierezza ma soprattutto nella sua fragilità e nella sua rassegnata impotenza.
Quando un uomo, qualsiasi uomo, viene strappato alla sua terra, quando è costretto a spezzare le sue radici, ad abbandonare la sua casa, rinunciare al suo passato, cancellare la sua storia, calpestare il suo orgoglio, tradire la sua dignità, non somiglia forse a un grande albero ridotto ad arbusto, violato e condannato a un’eterna, tragica fuga impossibile?
Forse, queste bellissime pagine di Camilleri, non rappresentano solo uno squarcio della sicilianità che amo e che brucia come il fuoco. Qui dentro non c’è solo la sofferenza di un olivo saraceno raccontata da un siciliano innamorato della sua terra ma c’è una verità molto più grande e tragica. Le radici, quelle di un albero secolare così come quelle di un essere umano, rappresentano la libertà … Senza, si muore!
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