Il sorriso negli occhi

Ci sono giornate immobili. Come questa. Nonostante i soliti chilometri calpestati con energetico piacere, il tempo interiore non scorre e si sottrae all’inesorabilità di quello esterno. 

Sarà colpa, forse, di certi pensieri che anziché srotolarsi in scioltezza insieme al cammino percorso, cozzano contro un muro invisibile, fissandosi a tal punto da diventare il muro stesso. 

Ma quali sono questi pensieri?

Fondamentalmente uno, con tutti i suoi ricami. E cioè che se fino a pochi giorni fa la parola che più riempiva le bocche e i cuori era “solidarietà”, perché tutti eravamo accomunati dallo stesso clima di drammatica incertezza, oggi (a me pare) quella che meglio descrive lo stato d’animo diffuso è “diffidenza”. 

Sì, diffidenza, sospetto, timore … tutte sfumature emotive che possono facilmente – e pericolosamente – sbavare in tinte più forti, quali egoismo, rabbia, aggressività.

Perché? Perché ora che l’allarme incomincia a lasciare un poco di respiro, ora che la tensione si stempera e nuovi orizzonti si schiudono lasciando intravedere le ali della libertà, si ha forse paura che la propria possa essere minata da quella degli altri.

Basta guardare come ci si osserva camminando lungo i sentieri, le strade, i parchi. Tutti spazi finalmente riaperti, che ci mancavano profondamente e riscoperti preziosi come l’ossigeno. Ma … ma quando una manciata di passanti casualmente s’incrocia, ecco che non solo ci si schiva per rispettare le distanze sociali, ma addirittura si evita l’incontro dello sguardo, voltandolo reciprocamente altrove. Pochi sono già troppi.

Se c’era un gesto tanto spontaneo quanto apprezzabile prima era lo scambio del saluto e del sorriso anche tra estranei che passeggiavano all’aperto, condividendo per un istante la bellezza di un panorama, la quiete lacustre, i profumi della montagna. Ora, sembra che ognuno di noi sia diventato improvvisamente geloso del piccolo spazio che occupa, dell’erba che calpesta, dell’aria che respira (con o senza mascherina), tanto da volerlo difendere allontanandosi da altre presenze. L’altro è un estraneo, un intruso a priori.

“Lontani ma vicini” o “vicini ma lontani”? La domanda sorge ancora più bruciante oggi, con l’annuncio della prossima riapertura delle frontiere anche a sud che riporterà molti italiani qui, nel cantone. Nei social piovono commenti scoraggianti da cui trapela un diffuso malumore sollevato da questo graduale ritorno alla normalità. Molti preferirebbero preservare il proprio piccolo orto, proprio ora che sta rifiorendo, per evitare che venga “contaminato” da chi non gli appartiene. E questo stato d’animo accentua le tinte fosche della diffidenza, del sospetto, del timore.

Col distacco favorito dal silenzio riprendo consapevolezza delle cose apprese e che piano piano fano capolino tra i miei pensieri. Per esempio, il fatto che la paura alimenti il sospetto, a scapito della fiducia. Non a caso, riecheggiano le parole di Lord William Gladstone: “il credito è il sospetto che dorme”. C’è però un elemento causale aggiunto in questa crisi epidemica, che forse sfugge del tutto: la mascherina che rende invisibile il sorriso. Sembra, infatti, che l’empatia dipenda dalla specularità delle espressioni che si dipingono sul volto; l’invisibilità ci condanna a una reciproca freddezza.   

 Si stava meglio quando si stava peggio? Certamente non può essere così, dico a me stessa. Tuttavia, dopo questa lunga camminata sotto un cielo languido e inquieto insieme, non posso fare a meno di accogliere questi pensieri nati alla rinfusa in una giornata immobile. Bussano troppo forte alla mente per riuscire a ignorarli. E mentre li metto in fila per cercare di dar loro un senso, ecco un uomo che non conosco: da lontano mi viene incontro, mi passa accanto (ma non troppo) e da dietro la mascherina gentilmente … mi saluta. Con un sorriso negli occhi che incontra il mio!