Alta Val Verzasca, la bellezza primordiale della natura

Terra, aria, fuoco, acqua. I quattro elementi vitali che animano il cosmo sono straordinariamente presenti in una delle Valli più incantevoli del Canton Ticino: la Valle Verzasca. Il “cuore verde” del Ticino, come è amabilmente chiamata, è amore a prima vista e risveglia vigorose emozioni non appena ci si incammina per le sue vene fresche e smeraldine. 

Lunga 25 chilometri, questa valle confina a levante con la Riviera e la Leventina, a ponente con la Valle Maggia, e tra i suoi brillanti declivi accoglie i comuni di Vogorno, Corippo, Lavertezzo, Brione, Gerra, Frasco e Sonogno. Ogni borgo meriterebbe un racconto a parte, tanta è la storia che una manciata di casupole in pietra può racchiudere. 

Questa valle è nota soprattutto per la diga, il ponte “romano” di Lavertezzo e lo scenario tropicaleggiante che ammicca ai bagnanti incuranti delle acque gelide e cristalline. Ma fino agli anni ’50 la Valle Verzasca era poco conosciuta agli stessi ticinesi, che ne avevano sentito parlare solo attraverso gli scritti di qualche esploratore del passato. Luigi Lavizzari, per esempio, nel 1849 descriveva la via d’accesso alla Verzasca come “… valle tortuosa, dove le basi delle opposte montagne si scontrano ad angolo acuto, come denti di due seghe, e al fondo rumoreggiano acque cupamente verdi…”

Un’altra immagine per me bellissima è quella recuperata in un altro racconto dalla paternità incerta, riferito al nucleo di Corippo, il villaggio pensile, dove  “… le galline debbono portare brache di tela per trattenere le uova”.  La dice lunga: per secoli i lavori rurali qui hanno dettato legge e in autunno, quando volgevano al termine, uomini e ragazzi migravano per le città della Lombardia e del Piemonte come spazzacamini, allora assai preziosi. Poi, in primavera, tornavano nella valle per riprendersene cura, spolverandosi di dosso la fuliggine dell’inverno. Come molti abitanti delle valli, anche loro usavano un gergo incomprensibile agli estranei, il taróm di rüsca, e con un po’ d’immaginazione, pare di sentirlo ancora oggi echeggiare nelle viuzze pietrose dei nuclei semideserti.

Ma lasciamo la storia e torniamo alla natura della Valle Verzasca, in particolare alla “valle alta”, quella che da Sonogno s’inerpica verso le montagne. 

Terra: rocce caparbie dai colori selvaggi che spaziano improvvisi dal bianco al nero al rosso, evocando energie fresche e pure, forti e mature, occulte e misteriose.

Aria: frizzanti folate serpeggiano giù in valle sospinte dai venti carichi d’azzurro delle vette del Poncione e del Monte Zucchero emanando una vertiginosa sensazione di libertà.

Fuoco: quando il sole si eleva, accende la valle di un vigore palpabile e la vegetazione sembra accelerare la sua crescita che, in questa stagione, esplode in un ventaglio di verdi infinito.

Ma soprattutto acqua: l’anima della Valle Verzasca è l’acqua, elemento vitale femminile per eccellenza che tutto crea, tutto nutre, tutto purifica. Tremenda e quieta, s’alterna in un susseguirsi di placide gole turchesi protette da lembi di rocce levigate, alimentate da fragorosi ruscelli, imponenti cascate e inattesi rivoli che sbucano fuori dalle falde della montagna per confluire nel grande padre, il fiume Verzasca.

Appena sopra Sonogno – a circa 1000 metri d’altezza – dove la Val Redorta bacia la Val Verzasca, l’impeto della Cascata della Froda riempie tutto di energia, rimbalzata dai numerosi massi coppellari che evocano l’inquietante presenza di insediamenti preistorici. L’aspetto primordiale di questo paesaggio è ingentilito da folte felci che ammantano il suolo di un allegro verde. Non è raro veder sbucare tra le frasche i veri abitanti di questi luoghi – le capre – agili creature barbute che ti fissano senza timore, senza scostarsi di un millimetro per consentire il cammino lungo il sentiero. Sono gentili, basta esserlo con loro per passare. Poco oltre sono le mucche, con le loro giocose pezze bianche e marroni, ad animare lo scenario e capita facilmente di fare un bagno nelle acque pure che sostano tra le rocce proprio mentre gli animali si affacciano a bere.

Anche questo fa sentire parte di un tutto così libero e semplice che commuove, almeno così è per me. 

Lasciando capre, mucche e gelidi bagni, il sentiero s’arrampica verso Püscen Negro (che misteriosamente significa pesce nero) ed è talmente piacevole con le sue anse accomodanti e sciolte che neanche ci si accorge di salire verso i primi 1300 metri della montagna. Eppure, arrivata ai rustici con l’immancabile bandiera svizzera al vento, guardando giù, la valle appare lontanissima e il maestoso fiume ridotto a una sottile linea liquida che sgomita nella vegetazione brulicante. L’infinitamente grande si fa infinitamente piccolo – penso – ma la profonda bellezza che trasmette non muta perché la vera bellezza trascende la dimensione.

Guardo il Monte Zucchero sopra di me che, con i suoi 2735 metri spruzzati di bianco, sembra quasi a portata di mano. Mi piace quest’illusione, perché se da un lato mi ricorda i miei limiti, dall’altro stimola le mie ambizioni. Non c’è tempo per raggiungerlo oggi. Ma basta prendersi il tempo per contemplarlo nell’immenso silenzio di questa valle verde per espandere il proprio campo percettivo e sentirsi parte di un paesaggio che, come per magia, è già parte di noi. Terra, aria, fuoco, acqua.