La curiosità per tutto ciò che è nuovo e sconosciuto mi ha portato spesso a sfidare i miei limiti, viaggiando a metà tra il coraggio e l’incoscienza.
Ripenso ancora con viva emozione a una delle mie più straordinarie avventure, una vera e propria partita contro me stessa, e raccontarla ora è un po’ come riviverla.
E’ estate e mi trovo a Roatan, al largo delle coste dell’Honduras. Affascinata dallo spirito d’avventura di un gruppo di Americani, mi lascio convincere a partecipare al Seeshore Canopy Tour, senza sapere nemmeno esattamente di cosa si tratti. Con una pacca sulla spalla e un fragoroso “don’t worry, let’s go baby!”, mi trascinano con loro, assicurandomi che in America il canopy è uno sport ormai diffusissimo, divertentissimo e nient’affatto pericoloso. In pratica, ci si lancia da un albero all’altro appesi a delle funi come scimmie. Ma sarà, proprio, solo così?
Scopro, in realtà, che il canopy nasce diversi anni fa, in Costa Rica, dal progetto di Darren Hreniuk, un canadese innamorato della natura, che ha voluto inventare un modo tutto nuovo per far conoscere la foresta ai turisti, partendo da una diversa prospettiva, ovvero dall’alto! Da allora, il canopy si è diffuso un po’ ovunque, dall’Alaska alla foresta amazzonica, fino ad approdare anche in Europa e sta riscuotendo un crescente successo come sport estremo, con diversi livelli di difficoltà, abbordabile anche dai meno esperti e dai più giovani. Come avrei potuto rinunciare, quindi, a quest’esperienza da brivido a me sconosciuta? Ok, let’s go!
Unici italiani, tra una decina di vivaci Americani, siamo io e mio figlio di dieci anni, che si è sempre dimostrato molto più coraggioso di me. Al parcheggio del resort ci aspetta un vecchio camioncino un po’ ammaccato, senza finestrini e tutto colorato, che ci dovrebbe portare – almeno si spera – fino al punto più alto dell’isola. Già questa pare essere un’impresa: la foresta è raggiungibile attraverso salite tortuose e sterrati a strapiombo, che ci tocca affrontare a bordo di questo trabiccolo tutt’altro che rassicurante.
Per fortuna, ce la fa! Arriviamo in cima alla montagna, alla base di partenza del Seeshore Canopy Tour, dove tre simpatici ragazzi hondureni ci accolgono con un gran sorriso, pronti a fornirci l’attrezzatura necessaria e le istruzioni utili prima di intraprendere l’avventura. Già alla vista dell’equipaggiamento capisco che non deve essere affatto uno scherzo: elmetto di protezione per la testa, imbragatura con doppio moschettone (capirò dopo perché ne occorrono due) e guanti enormi e spessi per proteggere le mani. Ognuno di noi comincia a infilarsi l’attrezzatura e, alla fine della vestizione, vedendo mio figlio mascherato in quel modo, mi pento immediatamente d’averlo coinvolto in quest’impresa, anche se lui, al contrario, pare molto divertito e nient’affatto preoccupato. Nemmeno quando gli traduco tutte le istruzioni da seguire durante il percorso, per evitare di farsi male, sembra esitare, mentre io, per un attimo, vorrei davvero poter tornare indietro e non aver mai dato ascolto agli Americani e al mio maledetto spirito avventuriero.
Ma siamo qui, ormai, e siamo tutti pronti. Tra poco si vola!
Il tour consiste in un percorso di un’ora circa. Partendo da una piccola piattaforma di legno, costruita sui rami di un albero, ci si lancia agganciati ad un cavo d’acciaio – zip line – collegato ad un altro albero, fino a raggiungere la successiva piattaforma, ad un’altezza variabile dai 50 ai 100 metri. I cavi sono lunghi da 50 a 135 metri e sono due, tesi parallelamente, ecco perché due moschettoni: uno è di sicurezza, così, nel caso il primo dovesse malauguratamente sganciarsi, ci sarebbe sempre il secondo (e se si sganciasse anche il secondo …?). La postura durante il volo è fondamentale per evitare incidenti: una mano, quella davanti, afferra il moschettone, mentre quella dietro sta sul cavo, per frenare all’arrivo. Ma attenzione, perché se per caso un dito scappa oltre il moschettone addio mano! Non solo: la testa dev’essere sempre leggermente scostata di lato, perché l’urto contro il cavo d’acciaio non sarebbe piacevole, nonostante la protezione del casco; tuttavia non deve essere troppo esposta all’esterno, per evitare di colpire rami e foglie. Infine, le gambe vanno spinte in avanti rispetto al resto del corpo e tenute sempre incrociate, come essere seduti, per evitare di roteare su se stessi e perdere l’equilibrio durante il volo.
Mi spiegano che appena ci si lancia, si ha la tentazione di stringere forte il cavo con la mano dietro per frenare, dato che la velocità mette i brividi e a tratti spaventa. In realtà, questo è un errore da non fare, perché così facendo si rischierebbe di fermare la corsa, restando sospesi a metà line, per dover essere poi recuperati da uno dei ragazzi, con enorme fatica per lui e perdita di tempo per tutti.
Ok, capito tutto! Siamo pronti per la prima zip line! Io e il mio ragazzo siamo gli ultimi. Guardando gli Americani volare uno alla volta, come uccelli un po’ goffi nell’aria, sono presa da un duplice pensiero. Uno mi conforta e l’altro un po’ mi angoscia: tutti prima di noi sono arrivati sani e salvi alla seconda piattaforma, bene! … ma una volta fatto il primo lancio non esiste possibilità di tornare indietro, è un percorso a senso unico, fatto di una sequenza di lines a lunghezza e velocità crescente. Quindi, una volta partiti è inutile ogni ripensamento. Così come è inutile questa mia sciocca riflessione, perché adesso tocca a me e dopo di me … al mio ragazzo!
Mi lancio, socchiudo gli occhi come a voler dimezzare la paura e spontaneo mi scappa un grido liberatorio. La sensazione è un miscuglio di paura di cadere, voglia di arrivare ma anche di fermare quei secondi in volo che mi separano dalla piattaforma che mi aspetta. L’adrenalina mi percorre in una scossa: energia, illusione di libertà, di assenza di limiti … tutto concentrato in pochi secondi che sembrano durare un’eternità. Sento solo il vento che mi sostiene, mi spinge e mi frena. Spariscono cavi, moschettoni e imbragatura, mi sembra davvero di volare calamitata da una forza atavica che annulla ogni umana debolezza. Quasi non mi rendo conto di averlo fatto davvero e approdo sulla piattaforma successiva col cuore a mille e il vento ancora tra i capelli.
Una volta atterrati occorre essere svelti e ripartire subito, non c’è tempo per pensare né per voltarsi indietro. I ragazzi mi aiutano a sganciare i moschettoni e a riagganciarmi alla successiva line, in fretta, perché le piattaforme sono strette e non ospitano più di tre o quattro persone contemporaneamente. Tutto sommato, mi sento molto più sicura appesa al cavo che non in piedi su quel fazzoletto di legno senza riparo alcuno, vista anche la mole di alcuni miei compagni d’avventura. Nel trambusto, faccio a malapena in tempo a lanciare uno sguardo indietro e vedere il mio ragazzo sospeso nel vuoto: sta volando anche lui, viene verso di me mentre io sto per ripartire. Niente grido liberatorio, gli occhi bene aperti sul vuoto, nessuna traccia di paura sul suo viso … sembra un piccolo Tarzan, penso, che coraggio! Mi commuove e mi rende ancora più orgogliosa di lui. Adesso posso affrontare la prossima corsa con più gusto e con maggior tranquillità.
Cinque, dieci, quindici lines, perdo quasi il conto dei voli a strapiombo nel vuoto! E’ vero che ogni lancio è sempre più lungo e la velocità aumenta ma, paradossalmente, il timore scivola via e l’insicurezza lascia pieno spazio ad una piacevole ebbrezza. E’ una sensazione orgasmica, corpo e mente si fondono in un rimescolarsi dei sensi. La foresta tutt’attorno e l’oceano in lontananza non sono semplicemente un panorama, non stanno fuori di me: mi sento appartenere a questa natura. Potrei essere un falco o una scimmia, un qualsiasi animale in perfetta armonia con questo teatro selvaggio. L’oceano sembra vicino da quassù, si vede persino la barriera corallina dove il blu si stempera d’azzurro. Mi vien voglia di volare su una line così lunga da poter arrivare a tuffarmi nel mare. Peccato invece, l’ultima piattaforma è alle mie spalle ormai e l’avventura è quasi finita.
Una volta atterrata definitivamente al capolinea, sento le gambe tremare per la tensione; le mani e i muscoli delle braccia fanno un po’ male per aver stretto troppo il cavo e il moschettone; la testa gira ancora piena di vento, vagamente ubriaca. Lentamente, ci liberiamo tutti dell’imbragatura. Gli Americani si complimentano col mio giovanotto con uno spontaneo applauso corale e sembrano dei giganti buoni attorno a un cucciolo. E lui si sente fiero per essere il più giovane intrepido del gruppo, forse non del tutto consapevole delle sue prodezze ma certamente felice per avere qualcosa di speciale da raccontare agli amici, al suo ritorno a casa.
Il tour è durato un po’ più di un’ora eppure i minuti sono volati, come noi sulle lines. Sarei pronta a ripartire per una nuova serie ma non sarebbe la stessa emozione, forse. Mancherebbe l’incoscienza, l’incognita della reazione fisica e soprattutto emotiva, l’aspettativa adesso sminuirebbe la sorpresa, chissà … Così salutiamo e ringraziamo i ragazzi che ci hanno accompagnato e assistito durante il viaggio e risaliamo a bordo del nostro scassatissimo camioncino colorato, che non fa più alcuna paura ormai.
Il caldo e l’umidità aumentano la percezione della stanchezza fisica che all’improvviso mi assale ma la soddisfazione è indescrivibile. Guardo le espressioni degli Americani che, lungimiranti, si erano premurati di portar con sé birra e rhum per ricaricarsi, e resto in ascolto dei loro commenti, curiosa di conoscere le loro sensazioni. Da tutti i loro sospirati “Oh my God!”, scopro con una certa soddisfazione che anche i più spavaldi e temerari hanno provato un brivido di paura. Qualcuno, addirittura, si ripromette di non ripetere mai più una simile pazzia, nonostante l’entusiasmo.
Così, sprofondo nel sedile, accarezzo la mano di mio figlio e silenziosamente mi consolo, pensando a come sono fatta! Intrepida e curiosa sì ma … le vertigini sono un mio limite fisico da sempre, che non ho mai potuto superare! Mi bastano pochi metri da terra per soffrire e mai e poi mai avrei immaginato di riuscire a vincere quella ridicola sensazione di angoscia e d’impotenza di fronte all’altitudine.
Accetto, quindi, un rhum, come meritato premio al mio riscatto, e brindo con gli amici Americani mentre la radio trasmette un’allegra canzone country. George Strait canta “There’s a road a winding road that never ends, full of curves lessons learned at every bend, going’s rough unlike the straight and narrow … It’s for those who go against the grain, have no fear dare to dream of a change…”.
Mai aver paura di osare e di sognare di cambiare, è vero … Faccio mie queste parole e, durante il lento viaggio di ritorno, guardo con occhi nuovi la foresta che si tuffa nell’oceano, quella foresta che mi ha accolto nel suo cuore e che mi ha restituito al mondo più ricca e più forte.
Intanto penso già a quale sarà la prossima sfida con me stessa!
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