Orvieto, un ricamo di tufo scolpito nel tempo

Verde, morbida, romantica. E insieme cinerea, tenace, solenne. L’Umbria, con le sue cittadine in pietra adagiate sulle colline, è la sola regione del Centro Italia a non essere abbeverata dai mari. A pensarci bene, questa sua particolare collocazione geografica ha probabilmente influenzato la sua personalità: più raccolta, più intima, più mistica rispetto ad altre fette d’Italia, parimenti belle ma meno isolate in se stesse. Così, imbevute in una storia che pare sospesa tra i cieli azzurri sfilacciati di cotone e il verdeggiante brulicare di vigne e ulivi, le cittadine umbre, con umile grandiosità, impongono una garbata contemplazione. Al limite con la sacralità.

Orvieto è una di queste gemme. La sua anima etrusca esprime perfettamente il carattere di una città fiera del suo passato, dolce amica di una vegetazione che s’aggrappa caparbiamente sulle roccaforti. Le sfumature ocra del plateau di tufo su cui poggia il borgo si stemperano in quelle soffici dei verdi, così da creare un arazzo di contrasti, ricamato dai fili della storia e colorato dal pennello della natura. Lo scenario innamora al primo sguardo e, come un fiore, fa venir voglia di scoprirlo petalo dopo petalo, addentrandosi con pudore nelle sue vene. Sotto quel “sasso che si erge verso le nubi al cielo” (Saxum per nubila coeli surgit), come un poeta orvietano cantò nel Duecento, scorre, infatti, una storia millenaria che, dalle origini etrusche, ha visto affastellarsi le dominazioni gote, bizantine e longobarde, avvicendarsi le glorie e i dolori delle epoche romana e medievale, fino all’assoggettamento al Papato.

Tra storia e leggenda attraverso i secoli 

Quello con la Chiesa è per la città un fil rouge che, se da un lato, ha scatenato effervescenti contrasti sociali, dall’altro è stato stimolo di crescita per il piccolo borgo destinato a trasformarsi in moderna “città stato”. A questo periodo risale la nascita di uno dei simboli di Orvieto – il Palazzo del Popolo – eretto attorno al XIV quale dimora del Capitano del Popolo. Il ruolo istituzionale del Palazzo si è sciolto via via nella semplice quotidianità, fondendosi con le voci, i colori, gli odori e i sapori del popolo. Il modo migliore per rendere eterna l’arte. Infatti, la sua piazza, ancora oggi, prende vita con il mercato, vera anima di ogni città. 

Dal profano al sacro, è proprio il caso di dirlo, perché dal 1350 la bella città umbra diventa nido dei papi fuggiti da Roma sotto la pressione dei Lanzichenecchi. E, come spesso accade, la concatenazione di eventi feroci è l’avvio verso un prospero futuro. L’evoluzione di Orvieto, infatti, fiorisce proprio da questo periodo in poi, periodo che proietta la città in un vortice di bellezza e sviluppo, trasformandola in un’opera d’arte in continuo divenire. Il divorzio con il Papato le lascia quell’eredità architettonica che fa di Orvieto un gioiello a cielo aperto e, nell’immaginario collettivo, un luogo dove son riassunti i trascorsi storici del nostro Paese. 

A metà tra storia e leggenda, il Pozzo di San Patrizio è un capitolo imperdibile di questo romanzo: commissionato dall’allora Pontefice Clemente VII – si parla del 1527 – rifugiatosi qui a seguito del sacco di Roma, il Pozzo (in origine Pozzo della Rocca) doveva approvvigionare Orvieto d’acqua in caso d’assedio. In seguito, nell’Ottocento, questo capolavoro d’ingegneria s’è vestito di fiaba, evocando le leggenda di unsanto irlandese, Patrizio, custode di una grotta senza fondo – l’omonimo pozzo appunto – attraversando la quale, dopo aver affrontato le pene dell’Inferno, si sarebbe potuto accedere al Purgatorio. E persino sfiorare il Paradiso. In effetti percorrere il saliscendi elicoidale del Pozzo dà la sensazione di immergersi nelle viscere della Terra per riaffiorare finalmente alla luce della vita. La scala di discesa e quella di salita non s’intrecciano mai, così come il male e il bene, l’Inferno e il Paradiso. Un’ideale catarsi spirituale che si snoda lungo 200 gradini di pietra da calpestare con meditata lentezza. Immancabile, all’uscita, il gesto rituale di lanciare una monetina esprimendo un desiderio, come suggerisce la scritta posta all’ingresso: Quod Natura Munimento Inviderat Industria Adiecit, ovvero Ciò che non aveva dato la natura, procurò l’industria! Suvvia, aiutati che il ciel t’aiuta!

Ma il vero re di Orvieto – il Giglio d’oro delle cattedrali – è il Duomo di Santa Maria Assunta in Cielo che, senza nulla togliere alle altre maestose chiese che la città vanta, resta uno dei massimi capolavori dell’architettura romano-gotica. Lo slancio della facciata, i bassorilievi decorativi, le geometrie prospettiche del portone e gli ori del rosone che ammiccano al cielo ipnotizzano lo sguardo e invitano a oltrepassare la materia per avventurarsi nella spiritualità. La bicromia dei marmi accentua la suggestione ipnotica e, una volta entrati, ci si sente parte viva di uno scrigno d’arte, solenne e grandioso, che culmina nella Cappella di San Brizio con il Giudizio Universale del Signorelli. Uno spettacolo da contemplare con l’anima.

Nelle viscere della grande rupe

Accanto all’arte e all’architettura sacrale, imponenti fortezze, torri, castelli e ville emanano ancora l’eco del prestigio temporale del borgo. Tuttavia c’è un altro volto della città che ancor più attrae e seduce: è quello invisibile dei labirinti e delle necropoli, quello di una città segreta che precipita sottoterra in un dedalo di grotte, cunicoli, pozzi e cisterne. Tutte testimonianze della vita che fu. Un groviglio di oltre 1200 anfratti, ricamato dall’uomo in quasi tre millenni di storia, dove il tempo pare cristallizzato. Qui, nelle viscere della “grande rupe”, il tufo racconta di un mondo oscuro dimenticato, se non fosse per noi, avventurieri del presente che, trasformandoci in curiosi speleologi, ci lasciamo risucchiare nelle pieghe del passato. Così, esplorando la città sotto la città, pare di vedere ancora donne e uomini intenti a macinare le olive, a conservare il cibo, l’acqua e il vino.

Sorseggiando Orvieto

E qui si apre un altro capitolo sul fascino di Orvieto, che trascende i tesori architettonici e si riverbera nell’arredo urbano. Stradine e vicoli si snodano da Corso Cavour, fondendo le contrade medievali con i negozi di prodotti locali, le botteghe artigianali con i famosi merletti orvietani, le ceramiche, le sculture in legno e, naturalmente, i tanti deliziosi ristorantini dove poter coronare l’ammirazione per l’arte con il piacere del palato. Re nella cucina locale è, ovviamente, il vino che della città porta il nome, a sottolineare il legame indissolubile tra territorio e prodotto. Perché Orvieto odora di vigna al sole, e già gli Etruschi l’avevano intuito sfruttando le docili colline assolate per coltivare la vite, mentre le grotte di tufo venivano utilizzate come cantine. Dal vino dell’Impero Romano e dei Papi originano i vini Doc della zona, oggi noti in tutto il mondo: l’Orvieto e l’Orvieto Classico e l’Orvieto Rosso Doc. Altrettanto eccellenti sono il Cervaro de La Sala, il Fobiano de La Carraia e il Febeo di Cardeto. Spicca poi il Muffato de La Sala, il vino dai riflessi blu, le cui uve sono lasciate maturare più a lungo affinché si sviluppi una muffa nobile che lo rende unico. Una chicca locale è lo “Svinnere”, un liquore a base di visciole selvatiche, prodotto fedelmente a un’antica ricetta orvietana. Un’altra curiosità è l’Orvietan”: un composto dolce dalle ipotetiche proprietà curative, inventato da un certo Girolamo Ferrante da Orvieto. Il suo elisir  nel XVII secolo conobbe fama in tutta Europa grazie anche al re di Francia Luigi XIV che, pare, guarì dopo averlo bevuto. Vero o non vero, è bello immaginare che un Orvietano abbia ridato vita niente meno che a un sovrano francese. Con un sorso di…vino!

Pubblicato su Bubble’s Italia n. 8