“Ar tavolo imbandito semo tutti d’un partito” si dice a Roma. E se lo dicono i romani c’è da crederci!
La cucina romana, infatti, sembra mettere tutti d’accordo. E’ un linguaggio comprensibile e godibile per chiunque: concreta, dal carattere forte, sostanziosa, che non concede spazio a fronzoli e inutili sfizi ma che va al sodo, interpretando al meglio l’anima popolaresca.
Dalle trattorie di Trastevere alle osterie del Testaccio fino ai ristorantini del cuore storico, lo spirito culinario si mantiene per lo più casereccio e godereccio, vantando la qualità di ingredienti semplici e genuini, offerti da una terra ospitale come il suo popolo. E’ facile dunque fuggire gli snobismi gastronomici e non cadere vittime di mirabolanti proposte di cucina creativa, se si vuole assaggiare er mejo della cucina romanesca e abbandonarsi alle tentazioni di primi robusti e sughi corposi, per non parlare di vini schietti e penetranti, sapori che inconsapevolmente invitano alla socializzazione, al convivio, all’allegrezza della carne e dello spirito.
Sarà anche per questo retrogusto psicologico, quasi goliardico, della cucina romanesca che molti letterati del passato, italiani e stranieri, hanno decantato ricette e luoghi di una Roma Capoccia che, vista attraverso i loro occhi e raccontata attraverso le loro liriche, appare ancor più madre, matrigna, fata e strega. Così, non solo sulle tavole imbandite della capitale ma anche sulle pagine di testi memorabili troneggiano fettuccine, abbacchio e pajata, per non parlare di frattaglie, budelline brodettate, pasticci di zinna di vacca e milza con i funghi. Sì, perché anche gli ingredienti umili, gli scarti e tutto ciò che normalmente non compariva sulle mense dei ricchi, dei nobili e dei cardinali, ha sempre avuto un posto d’onore nella cucina romana. Anzi, è proprio la cucina povera quella tipicamente romanesca, non quella dei Papi! Tutt’oggi, se volessimo fare un confronto tra la cena del cittadino romano medio descritta dai letterati latini e dai poeti conviviali con il modo di mangiare diffuso nella campagna romana troveremmo ben poche differenze: uova, polli, agnelli, lardo, pesci di paranza, fave, puntarelle, verdure selvatiche, uva, fichi …
Così come il turista moderno s’innamora dei sapori romaneschi, allo stesso modo l’impatto che questa cucina aveva sullo straniero doveva essere davvero straordinario. E quando quello straniero era anche un letterato, ecco che la curiosità e lo stupore per il cibo si trasformava in lirica, sonetto, romanzo, per rimanere eternamente scolpito nella memoria collettiva. Una delle prime attrazioni per i forestieri di tutti i secoli era rappresentata dalle osterie, numerosissime rispetto alla popolazione. Nel Cinquecento se ne contavano oltre un migliaio e servivano sia da asilo per i viandanti, sia da accoglienza per i personaggi illustri in attesa d’essere ricevuti alla corte papale.
Uno dei letterati stranieri più generoso nei confronti della cucina e delle abitudini romane è stato Michel de Montaigne che, attorno al 1580, soggiornò lungamente a Roma sedotto dalla vita colorita, lussuriosa e carnale della capitale. Questi “assaggi” di vita erano per lui un modo per conoscere se stesso attraverso gli altri, una ricerca di consapevolezza che ha accompagnato tutto il suo cammino di pensatore. Il celebre scrittore francese nel suo Viaggio in Italia descrisse usi , pensieri e stravaganze dei cittadini romani con particolare meticolosità nei riguardi della cucina di cui era profondo estimatore. “A Roma c’eran già rose e carciofi, ma quanto a me non soffrivo affatto caldo ed ero vestito e coperto come a casa mia. C’era meno pesce che in Francia; i lucci specialmente qui non san di nulla e si lasciano al popolo. Raramente si trovan sogliole e trote, e barbi ottimi e assai più grandi che a Bordeaux, ma cari; le orate son tenute in gran pregio, e le triglie son più grandi delle nostre e un po’ più sode. L’olio è eccellente, al punto che qui non sento mai quell’aspro che in Francia mi resta nella gola. Si mangia uva fresca tutto l’anno, ancora in quest’epoca se ne trova di ottima appesa ai pergolati. Il montone invece qui è pessimo e tenuto in nessun pregio ..”
Un altro personaggio beatamente sedotto dalle tentazioni gastronomiche romane fu Charles de Brosses che dedicò 17 delle 55 Lettres familières proprio a Roma. Il magistrato, filosofo e linguista francese scriveva le sue lettere seduto a un tavolo di un’osteria o di una locanda, traducendo “dal vivo” sapori, aromi, fragranze consentendo così al lettore un giudizio tangibile, quasi condiviso. Un po’ come fanno oggi i critici gastronomici. “Qui a mio parere si mangia assai bene …Non la selvaggina, che è mediocre, ma le cose comuni qui sono ottime. Il pane, la frutta, la carne, il vitello e soprattutto il manzo, del quale non è mai lodato abbastanza.Le minestre di pastasciutta, vermicelli o maccheroni si usano moltissimo: del primo piatto non dicono né bene né male, mentre sul secondo concordo con Arlecchino: ben cucinato, nel latte o nel brodo, gli trovo il gusto di un ottimo pasticcio. Per quanto riguarda le composte di frutta, conviene dare la preferenza a quelle di cedri tagliati in quattro e bolliti semplicemente nell’acqua con un po’ di zucchero, come una leggera composta di mele.”Probabilmente Brosses intendeva limoni e non cedri, poiché all’inizio del Settecento in Francia gli agrumi erano frutti rari e poco conosciuti nelle loro varietà.
Un certo Antoine-Claude Pasquin, meglio conosciuto come Valery, nel 1841 pubblicò una guida turistica dal titolo L’Italie confortable, in cui grande spazio è dedicato alla cucina romanesca. In particolare “Niente di più delicato delle fritture di cervello, di animelle di vitello e di agnello, e di rognone di agnello e granelli… i piccioni locali sono i migliori d’Italia. Questi piccioni fini, bianchi, rosa, danno un brodo squisito, stomatico e salutare ai convalescenti. La superiorità della loro razza risale all’antichità”.
Antichità: forse è questo l’ingrediente segreto che rende ancora oggi così straordinaria la cucina romanesca, insieme al suo popolo e alla sua Città. Una delle poche cucine al mondo in cui si affastellano e riaffiorano diverse epoche storiche e sociali, in cui il passato riemerge attraverso sapori mai sopiti, odori ancora intensi e immagini di vita quotidiana resi eterni dalle tradizioni famigliari. Accanto alla cucina povera c’è quella borghese e nobiliare, mentre ai piatti tradizionali si affiancano quelli delle regioni vicine, sedotte o conquistate dal fascino capitolino. A condire il tutto, sopraggiunge la cucina ebraica in un generoso e reciproco scambio di influenze che nel tempo hanno impreziosito ancor di più aromi e fragranze.
E cosa dire del vino? Dai Castelli a Sabina, da Aprilia ai Monti Lepini, da Agnani a Montefiascone quella dei romani per il vino è stata sempre un’atavica passione per il piacere della vita. Tanto che per mettere un freno agli eccessi e tenere svegli i sensi, Leone XII fece installare dei cancelletti davanti alle osterie affinchè gli avventori non potessero sedersi e crogiolarsi per ore con la bottiglia, migrando ebbri dalle braccia di Bacco a quelle di Morfeo. E senza scomodare qualche letterato straniero del passato, per capire quanto importante sia il vino per il romano di tutti i tempi, basta dare la parola a chi mejo de tutti ha saputo elogiarne la bontà nel linguaggio più opportuno: Gioacchino Belli.
Er Vino
Er vino è ssempre vino, Lutucarda:
Indove vòi trovà ppiù mmejjo cosa?
Ma gguarda cqui ssi cche ccolore!, guarda!
Nun pare un’ambra? senza un fir de posa!
Questo t’aridà fforza, t’ariscarda,
Te fa vvienì la vojja d’èsse sposa:
E vva’, si mmaggni ‘na quajja-lommarda,
Un goccetto e arifai bbocc’odorosa.
È bbono assciutto, dorce, tonnarello,
Solo e ccor pane in zuppa, e, ssi è ssincero,
Te se confà a lo stommico e ar ciarvello.
È bbono bbianco, è bbono rosso e nnero;
De Ggenzano, d’Orvieto e Vviggnanello:
Ma l’este-este è un paradiso vero!
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