L’Essere umano gioca perché giocando prova piacere. Un piacere ancestrale, istintivo, irrinunciabile perché salvifico, nel senso che alleggerisce l’esistenza dei suoi inevitabili fardelli e ne esorcizza l’ineluttabile epilogo. E il gioco, inteso essenzialmente come ricerca del piacere, va a pescare direttamente nel profondo dei bisogni primari, declinati in ognuno di noi nelle espressioni più affini alla propria indole, in un silente dialogo tra spirito e corpo.
Il piacere sessuale è per l’anima ciò che la buona tavola è per lo stomaco e quando queste due dimensioni s’intrecciano la natura primaria del piacere si irradia in rivoli di sensazioni ed emozioni nuove e imprevedibili sfociando così nella sfera ludica.
Quest’associazione gustativa tra sesso e cibo ricorre spesso nella storia, nella filosofia e nella letteratura. Ma in particolare è il leitmotiv sotteso al pensiero e allo stile di vita dei libertini del XVIII secolo che, in fatto di giocosi piaceri, non si facevano mancare nulla. Tutto doveva passare attraverso i sensi per soddisfare il corpo e lo spirito.
Primo tra tutti i famosi libertini dell’epoca è, naturalmente, Gian Giacomo Casanova. Veneziano, figlio di artisti, cresciuto con un innato istinto alla seduzione e all’amore fisico, il giovane fa ben presto delle proprie esuberanti virtù un’arte. A tavola e a letto.
“Coltivare i piaceri dei sensi è stato in tutta la mia vita il mio primo impegno. Sentendomi nato per il sesso diverso dal mio, l’ho sempre amato, e me ne sono fatto amare quanto ho potuto. Ho anche amato con trasporto la buona tavola …” scrive Casanova nella prefazione del celebre “Histoire de ma vie.”
Non disdegna alcun cibo, il baldanzoso rubacuori, così come non esita ad accompagnare i più squisiti piaceri del palato ai più audaci giochi di letto, consumati sempre con rara fantasia.
Alcune delle vicende più colorite, divenute leggendarie nella letteratura del libertinaggio settecentesco, riguardano il rapporto di Casanova con un particolare cibo, simbolicamente ineguagliabile nel linguaggio amoroso – l’ostrica – al quale l’indomito seduttore dedica letteralmente un “gioco”.
Bisogna premettere che già nel secolo precedente l’allusivo mollusco è considerato un potente afrodisiaco, in grado di surriscaldare l’ardore di Venere e inturgidire il vigore di Priapo. Ma è soprattutto nel Settecento che l’ostrica incarna il preludio gastronomico per eccellenza, il pretesto esplicito per bere ottimo vino, champagne e liquori. Non è raro che durante gli orgiastici banchetti, gli invitati riescano a inghiottire anche centinaia di ostriche a malapena masticate, incoraggiati dall’effervescenza del vino profusamente offerto. E questo spesso non è che il ghiotto preambolo al pranzo o alla cena veri e propri.
In effetti, il mollusco pare rappresentare l’esatto opposto delle carni, sia nella concretezza sia nel simbolismo. Carni che puntualmente abbondano con ostentata opulenza sulle ricche tavole settecentesche. La leggerezza dell’ostrica compensa la pesantezza dei manzi; la trasparenza risplende sull’opacità dei maiali; l’effluvio d’oceano inonda i sentori di terra dei polli.
Leggerezza e delicatezza conciliano, dunque, anche gli ardori di Casanova predisponendo i sensi alla complicità più lasciva. Si narra che l’audace libertino amasse ordinare un piatto di ostriche prima di andare a dormire, indipendentemente dai bagordi appena consumati. Lo fa ad Amsterdam, per esempio, per corroborarsi dopo una faticosa corsa in slitta sull’Amstel ghiacciato; confessa di averne mangiate trecento insieme a otto amici, una sera a Milano, ricordata non solo per l’abbuffata di conchiglie ma anche per i fiumi di ottimo champagne; e lo fa a Roma, in compagnia di due dame, Emilia e Armellina, gentilmente corrotte a ogni genere di eccesso.
L’ostrica, per Casanova, è come il bacio. La fusione del mollusco vivo con la bocca trasforma il boccone in una sorta di ostia profana. Diventa persino deliziosamente blasfema se si pensa, per esempio, alla relazione carnale che il giovane intreccia nel 1754 con un’enigmatica religiosa sedotta con voluttuose ostriche e poi posseduta, con suo compiaciuto consenso, in una petite maison veneziana. “Ci divertimmo – scrive il Casanova – a mangiare le ostriche scambiandole quando già le avevamo in bocca. Lei mi presentava sulla sua lingua la sua nello stesso istante in cui io le imboccavo la mia. Non esiste gioco più lascivo, più voluttuoso tra due innamorati. É anche comico e il comico non guasta poiché le risa son fatte soltanto per gli esseri felici.”
Ecco l’essenza del gioco per Casanova: il piacere, piacere che culmina nella risata. A incorniciare la scena, già di per sé conturbante e ben dipinta dalle parole dello stesso protagonista, va aggiunto un dettaglio ancor più scabroso. L’erotismo ostreario tra i due è spiato da una stanza attigua dall’ambasciatore di Francia, Pierre de Bernis, amante ufficiale della religiosa, la quale doveva custodire un’imbarazzante confusione tra cosa fosse l’amore per Dio e l’amore per l’uomo.
In seguito, e per molti anni, Casanova ripete spesso questo piacevole rituale erotico-gastronomico battezzato “il gioco dell’ostrica.” Un gioco che il Pigmalione oramai navigato non utilizza solo come apoteosi di una partita di piaceri tra amanti già ardenti, bensì come strumento per sedurre e corrompere anche le dame più caste e recalcitranti.
Memorabile è una cena, nel 1770, in una locanda di Roma, dove Casanova è intenzionato a sciogliere la timidezza di quelle due giovani amiche, Armellina ed Emilia, con delle costose ostriche. Cinquanta paoli per cento ostriche, questo è il prezzo che l’ospite sottolinea con calcolato orgoglio alle invitate, solleticando ancor di più il gusto peccaminoso del loro scontato consenso. Non solo, insieme allo champagne Casanova ordina allo sguattero altrettante ostriche da consumare dopo cena, come dessert, raccomandandogli di non gettare la deliziosa acqua in cui esse nuotano.
A questo punto, la funzione dei molluschi diventa essenzialmente ludica e straordinariamente carica di un raffinato erotismo che i tre consumano con reciproco diletto. Ne godono a tal punto da riderne insieme (ancora torna la risata come manifestazione eccelsa del gioco), abbandonati nel languido abbraccio del piacere. Addio timidezza, grazie al gioco, come testimoniano le memorie di Casanova: “Convengo che era difficile il gioco dell’ostrica. Ma mi sono impegnato a insegnar loro come fare per conservare l’ostrica con l’acqua nella bocca, innalzando in fondo ad essa una barriera con la lingua per impedirle di scivolare nell’esofago. Tenuto a dare l’esempio, ho loro insegnato a introdurre come me l’ostrica e l’acqua nella bocca dell’altro, introducendo al tempo stesso in tutta la sua lunghezza la lingua … ridendo, poi, convenivano con me che nulla poteva essere più innocente.”
Il “gioco dell’ostrica” ha talmente successo che degenera, spesso e volentieri, con scivolamenti apparentemente sbadati dei molluschi nei décolleté delle dame e persino più in basso, laggiù, dove il velato mistero rende ancor più eccitante la caccia e gaudente la cattura. Ma questo è un altro gioco.
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