“Terra racchiusa d’ogni intorno dal mare”. È una delle più eloquenti e poetiche definizioni della parola “isola”, che tuttavia non sempre fotografa l’anima di un territorio completamente abbracciato dai flutti.
L’isola di San Pietro, sorella minore della Sardegna sud occidentale, sembra sfuggire a questa definizione e pare voler fare un dispetto al mare. Una volta approdati al porto, infatti, il dedalo di stradine, viuzze e sentieri che la innervano sembra invitare il visitatore a consegnarsi al risucchio di colline, rocce e strapiombi che fanno dimenticare il mare. Nemmeno lo si scorge più da lassù, a tratti, e la sensazione è quella di trovarsi lontano dall’acqua, nel cuore di montagne rocciose leccate dal vento, animate da una rigogliosa macchia mediterranea che sorprende tanto è verde e ricca in mezzo a quel nulla. Un’infinità di sfumature di verde fa da controcanto al calcareo profilo dei monti e che ricorda al visitatore quanto sia ricca d’acqua dolce questa …isola. C’è il faro a testimoniare che dopotutto ci si trova nell’abbraccio del mare, faro che domina l’orizzonte come un sovrano il suo regno.
L’isola verde è magica perché viene da un intricato passato. Colonizzata nel 1738 da un gruppo di pescatori di corallo originari di Pegli, in provincia di Genova, conserva prepotentemente le radici liguri che ben si sono armonizzate con quelle sarde. Intorno al 1500 i pescatori liguri migrarono nella piccola isola di Tabarka, nel mar di Tunisia, conducendo una vita difficile, minata dal continuo pericolo di incursioni nemiche. Due secoli di sfide con la sopravvivenza li hanno condotti al recente passato, rendendoli liberi colonizzatori dell’Isola di San Pietro, ancora deserta e promessa di una nuova alba. I Tabarchini, così si definiscono gli abitanti originari, dal 1700 in poi resuscitarono l’isola costruendo la città, la fortezza, le mura e avviando coltivazioni e pesca.
Questa è la magia che dopo 500 anni sedimenta un amalgama fortissimo tra due popolazioni unite dallo stesso destino. Ancora oggi a Carloforte si parla il tabarchino, un dialetto dall’evidente musicalità genovese ed è praticamente impossibile distinguere gli abitanti tra sardi e liguri perché in ognuno si mescola il lontano passato con il presente. Anche le case basse color pastello e le viuzze in pietra che strette strette s’intrufolano nel cuore di Carloforte evocano le tipiche città liguri, tanto che addentrandosi pare di sentire nell’aria il profumo di pesto e di focaccia al formaggio.
In realtà la vera risorsa di San Pietro, isola degli sparvieri, viene dal mare: è il tonno. Qui resiste fiera la tonnara di Carloforte, regno della lavorazione e conservazione del tonno, oggi gestita da Giuliano Greco, erede di una tradizione secolare di oltre 600 anni. La passione ha sconfitto la fatica e gli intrichi burocratici, e le confezioni di tonno, ventresca e tarantello che escono da questo regno sono prodotti di nicchia apprezzati in tutto il mondo. Solo il Tonno Rosso Bluefin del Mediterraneo ha il privilegio d’essere tagliato a mano e lavorato secondo canoni precisi che gli imprimono il suo vero valore.
Ma cosa succede prima? Come avviene la cattura dei tonni? Lo racconta bene Giuliano Greco: “…Siamo nell’ultima tonnara in uso in Italia. Non tutti sanno che i tonni percorrono il Mediterraneo sempre in senso orario per avere sempre la costa alla sua sinistra. Entrambi gli occhi riescono a vedere a grande distanza ma il sinistro deve avere sempre un riferimento: la costa. Scendendo lungo la costa a maestrale della Sardegna, i tonni si fermano davanti alle Tacche Bianche, perché lì si mangia bene. Infatti, in quel piccolo triangolo di mare tra la Sardegna, Isola Piana e l’Isola di San Pietro, la mangianza è molto ricca e lì da sempre i tonni depongono le uova. Tutto questo rende le loro carni più buone perché più ricche e irrorate di sangue. Nascono così milioni di tonnetti che per un po’ vanno in giro per il mondo e dopo 6 anni tornano dove sono nati perché il loro istinto è di tornare a casa. Solo il 10, 15 % dei tonni che si avvicinano alla costa vengono pescati dalle tonnare, rispettando così il naturale equilibrio della natura.”
C’è molto da imparare visitando la tonnara e ascoltando i racconti di chi la gestisce, e il consiglio è di andarci personalmente per respirare l’atmosfera di una pesca nient’affatto crudele come l’immaginario collettivo vorrebbe, bensì sensibile ed ecosostenibile. L’antica mattanza (dallo spagnolo “matar”, ovvero uccidere) è oggi una leggenda mantenuta in vita come spettacolo folkloristico che alcuni turisti ancora amano. Ma in verità la pesca dei tonni segue un protocollo severo e rispettoso che forse pochi conoscono. Le reti che vengono calate sono un vero e proprio labirinto in cui i tonni vengono attirati, un’opera ingegneristica che necessita di tutta l’abilità dell’uomo per funzionare. Sei sono le stanze in cui i tonni entrano attraverso porte fatte di maglia di cocco: dal “pedale” passano alla “stanza grande” fino all’ultima, la “stanza della morte”, dove i corridori del mare finiscono la corsa. La carovana delle “bastarde”, le barche da pesca, è lì pronta per l’affondo. L’organizzazione della ciurma è rigorosa e fortemente gerarchica: il capo è il Rais che domina il Sottorais, il Marinaio di parte, il Musciaro, il Bastardiere, il Palischermiere e il Rimorchiere. Ogni gesto e ogni comando seguono un copione solenne, un rituale che si ripete con religiosa precisione perché qui il tonno è sacro. Nonostante ai profani possa sembrare crudele, questa tradizione salvaguarda non solo la riproduzione dei tonni ma anche la sofferenza provocata dalla pesca, perché l’uncino colpisce in modo da assicurare all’animale una morte immediata. Questo evita ai tonni uno stress che andrebbe a scapito della qualità delle carni lavorate e conservate che, infatti, mantengono una scioglievolezza unica al mondo, apprezzata anche dal mercato nipponico. La stagione della pesca dura da maggio a giugno, poco dunque, e quando si levano le reti restano due risultati di incommensurabile valore: la soddisfazione per aver lavorato con l’entusiasmo di sempre e il coraggio di voler andare avanti raccogliendo ancora le forze per riparare le reti e cominciare la lavorazione dei tonni.
Il frutto di tutto questo lavoro? Tonno sott’olio, ventresca, tarantello, buzzonaglia, e ancora cuore, musciame, bottarga, perché del tonno nulla si scarta, sarebbe un sacrilegio, un’offesa al mare. Lavorazione e conservazione sono rigorosamente controllate e la qualità è garantita lungo tutta la filiera.
Dall’odore penetrante della tonnara dove i tonni vengono tagliati e lavorati, al goloso profumo della cucina che sublima all’ennesima potenza il frutto di questo lavoro. Al Ristorante da Andrea Osteria della Tonnara, sul lungomare di Carloforte a due passi dal porto, un percorso gastronomico accompagna alla degustazione di tutte le parti del tonno, resuscitate con maestria dalla creatività dei cuochi e dalla complicità delle erbe aromatiche endemiche, come il mirto. Qui, i sapori di mattanza si traducono in delizie per il palato, seta e velluto non semplice carne del mare. Dalla tartare all’arancio alla scottata di tonno, dalla ventresca alla brace al brasato di tonno al carignano, ogni piatto racconta la storia della tonnara e sembra voler riportare in vita questo straordinario corridore del mare offrendogli il meritato primo premio: la corona di re della tavola di Carloforte.
www.ristorantedaandrea.it
Non hai mancato anche questa volta di soddisfare le aspettative dei tuoi lettori. Il quadro è completato dagli spot alle fasi di macellazione, ricche di colore dell’eros marino del generoso vitello, naturalmente destinato al cibo delle razze sardo-liguri che ne ricercano sapori, tagli e consistenze, abitanti che ne apprezzano la conservabilità e il valore di merce di scambio con i residenti dell’isola e di altre terre. Grazie, sono felicemente soddisfatto di riesumare dalla memoria i ricordi di quel week end del 1960, speso con Luciano e la sua famiglia, in una delle più calme acque marine di Sardegna, aperte ai venti da ovest e nord ovest, protetta dalle temperature di scirocco, spesso violentata dalle tempeste di libeccio. Poesia, amore, estroversione di sentimenti, speranze di sicurezza al di là di protezioni secolari… Buon ritorno in continente, con un icordo in più!
Grazie Enzo!
E’ gia passato un altro mese…