Non è, però, necessario arrivare alle ultime pagine del libro per sentire il sapore che emana. Anzi, per essere precisa, non si tratta di un sapore ma di un retrogusto, amarognolo e pungente, più forte e persistente della pienezza stessa del gusto. Affrontare l’argomento del mangiare da questo punto di vista è decisamente originale e provocatorio. E’ un po’ come se un sarto descrivesse l’eleganza di un abito partendo dalla fodera. E la provocazione a riflettere in maniera così disincantata sui paradossi alimentari del nostro tempo non può lasciare indifferenti. Viviamo in una società in cui due terzi fa la fame e un terzo la dieta! Allora si capisce come tra le due teste di un simile mostruoso ossimoro, tutto sia possibile: dall’opulento dio McDonald, dove i bambini non diventano mai adulti e gli adulti restano eterni bambini, fino al regno della musa Ana, dove bambini fragili e disorientati rischiano d’essere intrappolati in una gabbia d’oro che tutto offre fuorché la vita, bambini incapaci di diventare adulti liberi e di spiccare felici il volo con la sola forza delle proprie ali.
Recentemente, è scomparso uno dei filosofi più significativi del panorama culturale italiano. Paolo Rossi, professore dell’Università di Firenze, membro dell’Accademia dei Lincei e, soprattutto, uomo profondo e sensibile, ha dedicato l’intera vita alla riflessione e all’insegnamento, praticato fino all’ultimo con grande entusiasmo. Amava definirsi ‘storico delle idee’ e, oggi, lui stesso è diventato Storia lasciando in eredità le sue idee.
Il suo ultimo libro risale allo scorso anno e s’intitola “Mangiare”,edito da Il Mulino. Non lasciatevi ingannare dal titolo bucolico che riempie la bocca e non indugiate, dunque, tra gli scaffali del reparto ‘cucina’. Il libro di Paolo Rossi appartiene a tutta un’altra specie letteraria e si colloca in prima fila tra i saggi di antropologia, perché il mangiare è sia Natura, sia Cultura e i modi di nutrirsi sono in grado di dire qualcosa di importante non solo sui modi di vita ma anche sulla struttura di una società e sulle regole che consentono ad essa di persistere e di sfidare il tempo.
“Mangiare” è uno di quei libri in cui pare di sentire la voce del narratore che fa da sottofondo al suo atto creativo. Convincente e appassionato nelle sue argomentazioni, Paolo Rossi ha dedicato questo scritto alla memoria di un suo caro amico e a sua figlia Laura, una brava psichiatra che si occupa di disturbi del comportamento alimentare, in special modo di anoressia. Le pagine del libro sono un approfondimento di alcune cartelle che il filosofo aveva scritto in passato per questa giovane donna, mosso dai forti sentimenti provati visitando di persona il reparto psichiatrico in cui lei lavorava. Perché un conto è leggere libri e un altro è avvicinare le persone. Questo spiega il taglio particolare del saggio, che pur titolandosi “Mangiare” tocca aspetti spesso solo paradossalmente legati al bello del mangiare. Mangiare, infatti, non è solo piacere. E’ anche fame. E fame significa bisogno, desiderio, ossessione, come dice il sottotitolo del libro. Significa digiuno, carestia, povertà, frustrazione, rinuncia, schiavitù, malattia, morte. Significa persino cannibalismo e vampirismo, ancora oggi praticati, nel nostro tempo e nella nostra società!
Paolo Rossi, da buon filosofo, vola alto e leggero attraverso scenari storici e culturali lontani tra loro, nel tempo e nello spazio, evocando qua e là passi intensi di scrittori e pensatori quali Calvino, Pasolini e Herta Mueller, per poi planare deciso laddove il volo è cominciato, sul terreno vischioso dell’anoressia. E lì colpisce il bersaglio, la musa Ana, come viene familiarmente chiamata l’anoressia sul web dai suoi giovanissimi fedeli: il tirannismo alimentare, l’amoroso anelare ad un vuoto che sazia più del pieno, in un inesorabile, lento, cieco suicidio. Ne parla con estrema delicatezza, com’è giusto trattare questo male subdolo dove tutto è difficile e ancora più doloroso perché coinvolge soprattutto chi si affaccia all’alba della propria esistenza, creature simili a passerotti chiusi in un’invisibile gabbia d’oro.
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