Oltre la ramina, sulle tracce dei contrabbandieri

Capanna San Lucio e Gazzirola

Era il 7 marzo del 2020, un sabato notte indimenticabile. Da quella data il confine tra Italia e Svizzera resterà praticamente invalicabile fino a metà giugno, salvo casi straordinari. Quattro mesi surreali che hanno catapultato le persone nell’incertezza più assoluta.

Oggi, ripensandoci, posso dire, con la certezza più assoluta, che quel tempo sospeso si è rivelato in fine prezioso e ricco di insegnamenti. Essere bloccata in quella fetta di Svizzera italiana in cui ho scelto di vivere mi ha “costretto” a conoscerla meglio, da dentro, ricalcando anche vicissitudini del passato per alcuni sconosciute, per altri dimenticate. 

Non essendoci l’obbligo rigoroso di restare in casa, diversamente che in Italia, durante quelle interminabili settimane ho cercato spesso il mio prudente isolamento sulle montagne del Canton Ticino, esplorando spazi mai avvicinati prima. Tra le tante arrampicate in compagnia di una natura straordinaria e di una valente guida, alcune mi hanno ricondotto sui sentieri un tempo percorsi da contrabbandieri, spalloni e bracconieri ma anche da guardie di finanza e di confine. Personaggi leggendari, oggi, testimoni di un legame profondo e controverso tra i due Paesi confinanti. Il fatto straordinario di non incontrare altre persone durante le escursioni aggiungeva un tocco magico in più per ricreare l’atmosfera eccitante e furtiva di quei tempi remoti.

Dalle prime pendici del Mendrisiotto fino alle Prealpi luganesi ancora oggi la natura custodisce queste memorie. Una storia di cui si possono tirare le fila a partire dal 1890, anno in cui, per contrastare il diffuso fenomeno del contrabbando, gli Italiani pensarono di innalzare, lungo i confini tra Lombardia e Canton Ticino, la cosiddetta “ramina”. Termine dialettale che indica una rete metallica allacciata a pali e infilata in pilastri di ferro, distanti un metro l’uno dall’altro. In origine la rete aveva anche dei campanellini in bronzo, il cui tintinnio avrebbe dovuto allertare le guardie di confine del passaggio dei briganti. Dei campanelli ormai non c’è più traccia, trafugati per il valore del bronzo. Per il resto, di questa linea di confine e fiscale oggi resta un groviglio di ferraglia ossidata che spunta dal terreno. In alcuni pendii, senza queste tracce ferrose, nemmeno ci si accorgerebbe di camminare a cavallo di due Nazioni.

Dove non c’è la ramina, ci sono sentieri e mulattiere a resuscitare la storia. Tutta la Valle di Muggio, per esempio, è ancora un intrico di percorsi strategici che collegano il Lago di Lugano con la Val d’Intelvi e il Lago di Como. Quando mi sono avventurata fino al Monte Bisbino ho immaginato cosa significasse arrampicarsi fin lassù con le bricolle cariche di 30 o 40 chili di preziosissima e proibitissima merce. Merce che, secondo i periodi, era costituita da riso, caffè, zucchero, burro, tabacco … Tra il 1948 e il 1973, periodo in cui regnava il commercio illegale di sigarette, i contrabbandieri salivano fin qui per passare in Italia e scendere fino a Cernobbio o a Moltrasio. 

Il viavai era proibito ma possibile. Gli Svizzeri, infatti, hanno sempre chiuso un occhio sui traffici clandestini. Sul versante elvetico gli spalloni si annunciavano dichiarando il carico alla dogana più prossima, dopo di che avevano il tacito via libera per entrare in Italia con il tesoro custodito negli zaini di juta. Juta utilizzata anche per rivestire le calzature, per non lasciare tracce di scarpe sul terreno o nella neve. Così, armati di roncola nel caso fosse stato necessario recidere le spalline delle bricolle e liberarsi del carico, gli spalloni hanno proseguito indisturbati per anni i loro traffici. Erano considerati degli eroi, forti di un coraggio e di un’energia non indifferenti. Questo fino ai primi anni ’70, quando la situazione economica cambiò e i margini di guadagno per l’Italia non furono più appetibili.

Oggi i “maia ramina”, i mangia ramina, sono semplicemente quegli Italiani e Svizzeri che abitano a ridosso del confine. Restano tuttavia affascinanti gli aneddoti di chi ha potuto vivere da vicino quelle avventure, narrati con orgoglio e spesso con un velo di nostalgia.

Me ne parla con entusiasmo la mia guida, durante un’altra scarpinata che ci ha condotti da Bogno, piccolo borgo della Val Colla, verso i 2116 metri del Monte Gazzirola, il più alto tra quelli che cingono Lugano. Per raggiungere la cima si deve attraversare il Passo San Lucio con l’omonima Capanna eretta a un filo dal suolo italiano. Per marcare il confine, su un altro rifugio, a pochi metri, svetta la bandiera italiana e qui normalmente il 15 di agosto Italiani e Svizzeri salutano insieme il Ferragosto. Non quest’anno, però.

Dopo qualche ora di cammino, ridiscendiamo dal Gazzirola ancora innevato, stando ben attenti a non ferirci sui resti della ramina aguzza, e condividiamo un profondo senso di gratitudine per aver potuto godere dell’ennesima escursione senza presenze umane. Ma proprio a due passi dal rifugio italiano, ecco comparire in lontananza due figure maschili in divisa, scese da un fuoristrada blu. Il contrasto tra l’immensità della montagna e quelle piccole creature le fa apparire come un miraggio, tuttavia sono reali e ci vengono incontro con qualcosa in mano. È un libretto, un libretto per le multe: quei due sono guardie di confine. “Da dove venite? ”ci domandano diffidenti. “Da Lugano …” Per fortuna, perché se fossimo stati residenti in Italia ci avrebbero multato per essere evasi dal lockdown comandato. Senza accorgercene avevamo sconfinato in territorio italiano e avremmo dovuto immediatamente uscirne per ritornare in quello elvetico, ci spiegano. Un passo, ed ecco fatto. Siamo liberi.

La situazione, un po’ grottesca un po’ comica, rimane ancora oggi tra i ricordi più intriganti di quei mesi passati a girovagare nella penombra di abetaie e faggeti, a caccia di silenzio e pace. Piccole grandi fughe lontano da un mondo ferito, in bilico tra il labile confine tra possibile e impossibile. Un po’ come i vecchi spalloni carichi di tesori proibiti.